lunedì 9 marzo 2009

Equal Opportunity

Solimano

Shirley MacLaine e Jack Lemmon
in The Apartment (1960) di Billy Wilder

Che fare in azienda, sul fronte Equal Opportunity?
Il problema non poteva essere ignorato, né affrontato con foglie di fico. Eravamo negli anni Settanta, e negli Stati Uniti alcune aziende erano finite nell'occhio del ciclone per aver fatto finta di niente. L'opinione pubblica stava col fiato sul collo. Riguardava, parlando fuori dai denti, tre categorie: donne, neri, handicap.

Dico qualcosa su come fecero per le donne.

Nominarono una donna come responsabile del progetto a livello mondiale. Dipendeva dal direttore generale. Così fecero in tutti i paesi importanti per il business (Germania, Francia, Italia, Inghilterra etc): una donna a riporto gerarchico del direttore generale del suo paese e a riporto funzionale della responsabile a livello mondiale. Un sano ricatto: se il direttore generale del paese snobbava il problema, la donna escalava al suo capo funzionale, che aveva il filo diretto col number one. Era evidente, non dormivano all'umido e quindi la faccenda (convinti o meno) la presero sul serio.

Gli obiettivi erano due: Equal Opportunity sì, ma riducendo al minimo l'impatto negativo sul business. Funzionò, anche perché seppero creare degli esempi di cui tutti in società si accorsero subito. Nel settore tecnici di manutenzione la popolazione per il 99% era maschile, periti che andavano in giro con la valigetta. C'era anche qualche donna diplomata: una di queste divenne capo di venti periti che avevano la sua età. Non restava che prenderne atto.

Il problema grave non fu nell'azienda, ma nel rapporto con i clienti. In Italia, al di sotto della linea gotica (talvolta anche sopra...), a livello direzione non volevano trattare con donne. Drammatica soprattutto la situazione nella Pubblica Amministrazione, centrale e locale. Non è che lo dicessero apertis verbis, ma avevano tanti modi per farcelo capire. Però funzionò soprattutto per un motivo: non fecero nomine poverinistiche, così, per mettere comunque una donna. Doveva essere brava, capace almeno come l'uomo che era in concorrenza con lei per quel posto. Fu solo questione del tempo necessario per superare attriti e inerzie. E' facile pensare che gli uomini preferissero avere un capo uomo, ma succedeva che anche le donne preferissero l'uomo, non la donna. Le persone intelligenti sanno cambiare, e cambiarono.

E' proprio vero che i problemi non finiscono mai: successe una cosa curiosa. L'età media era inferiore ai trent'anni, e fioccarono matrimoni fra questi giovani e queste giovani (convivenze pochissime, ci si sposava). Tutto bene, ma con le carriere, che fai? Non li puoi mettere a riporto l'uno dell'altro e se la carriera è legata ad un cambiamento di sede li devi spostare tutti e due.

Perché ho scritto questo post? Per dire che, quando ci si credeva, al senso di appartenenza ed alla motivazione, si potevano affrontare seriamente problemi difficili. Ma anche per un altro motivo. Perché, al di là di aziende così, che non esistono sciaguratamente più, ci sono problemi che sono nei fatti, nel conflitto fra vita e lavoro. Ricordo con disagio quello che imparai per caso. Una giovane laureata aveva fatto il primo colloquio di assunzione ed il test attitudinale. Si presenta al secondo colloquio e dice immediatamente: "Riguardo la visita medica a cui mi avete mandato, sicuramente dagli esami clinici è emerso un problema. Vi informo che quel problema non c'è più". Tranquilla, come se dicesse la cosa più naturale di questo mondo. Non so se l'assunsero.

Melanie Griffith, Harrison Ford e Sigourney Weaver
in Working Girl (1988) di Mike Nichols

Melanie Griffith e Harrison Ford
in Working Girl (1988) di Mike Nichols

8 commenti:

Roby ha detto...

Il finale del post è assolutamente agghiacciante.

Secondo me, probabilmente fu assunta: con un attaccamento al lavoro così estremo...

R.

Solimano ha detto...

Non lo so Roby, ma me lo sono chiesto spesso. Ma se erano fatti come immagino (e come eravamo quasi tutti noi allora), credo che non l'assumessero adducendo a se stessi una scusa che non c'entrava, di altro tipo: studi, sede, carattere etc.
Ma la domanda vera è: l'avrebbero assunta, senza prendere in considerazione il risultato della visita medica?
Per questo dico che il conflitto fra vita e lavoro è spesso molto aspro.

grazie Roby e saludos
Solimano

Habanera ha detto...

Per le donne sì, è molto aspro. Parlo del conflitto tra vita e lavoro. Tutto è dannatamente più difficile per le donne. Se non ci sono figli piccoli da accudire ci saranno i genitori anziani. Chi se ne occuperà quando anche le donne dovranno andare in pensione a sessantacinque anni? Non so se quella ragazza è stata assunta da quella Ditta e in fondo non ha molta importanza, un lavoro lo avrà trovato certamente. Sì, ma a che prezzo?

Solimano, questo tuo post vale da solo più di mille rametti di mimosa.
H.

mazapegul ha detto...

Il problema irriducibile e' proprio quello: chi si cura della prole (e dei vecchi)? Nei giorni scorsi, a scopo propaganda elettorale, mi sono guardato un po' di statistiche sui nidi. In alcuni paesi del Nord Europa e' la norma che i figli, dai sei mesi in su, vengano affidati ai nidi o a strutture similari durante il giorno (c'e' poi da discutere quanto questo sia nell'interesse del bambino: secondo me lo e'): percentuali sul 60%. Il mio comune e' al 45%, la regione Emilia al 20%, l'Italia al 9% (vado a memoria). L'obiettivo del trattato di Barcellona e' il 33% entro il 2010.
Queste cifre, in se', non dicono tutto: ci sono le mamme, ma anche le nonne; ci sono paesi con maggiore mobilita' del lavoro e paesi piu' rigidi. Non ho le cifre sui nidi nei posti di lavoro.
La scelta tra "eliminare il problema medico" o rinunciare al lavoro viene meno, credo, non solo cambiando cultura e atteggiamenti, ma dotandosi delle opportune infrastrutture (cio' che richiede, poiche' costano assai, un cambiamento di cultura e atteggiamenti).
Grazie Soli,
Maz

annarita ha detto...

Impressionante. E concordo pienamente con Maz. Non parliamo poi del ruolo delle donne nelle stanze del potere. Ho letto Prime donne della grintosa Ritanna Armeni e la situazione che illustra è sconfortante.
Salutissimi, Annarita.

Solimano ha detto...

Màz, va detto che erano gli anni del rampantismo (maschile e femminile) in cui se si sgomitava tutto diventava possibile. Fra di noi, alcune donne in preda alla sindrome equal opportunity, le chiamavamo "le maschie".

Il tuo ragionamento sulla percentuale dei bambini negli asili nido non fa una grinza, mentre io ho sempre visto l'asilo nido più come una eventuale necessità che una scelta (ma può darsi che abbia ragione tu, e comunque c'è il caso per caso).

Però continuo a vedere il conflitto più o meno grande se continua a dominare il lavorismo, anzi vedo un conflitto ancora più grande visto che la sicurezza del posto non c'è. Non si può chiedere ad una azienda che vada contro i suoi obiettivi aziendali. Vedo corretto il discorso che ha fatto Sabrina sul boulot alimentaire, finché non si affronta proprio la struttura, cioè la centralità del lavoro come autorealizzazione umana e come stima sociale. Non sarà più così perché il pieno impiego c'est fini.

saludos
Solimano

Anonimo ha detto...

OT
Quando parlavo di un lavoro alimentare parlavo del fatto che a me non piace anche se giunta a questa età ringrazio di averlo. Come ci sono arrivata? Per via della famiglia e anche forse per non aver avuto le idee chiare da ragazza. Ora ce le ho ma so anche che facendo quello che voglio fare non mi guadagno da vivere. Ognuno si realizza nel modo che rappresenta un compromesso fra ideali e vita vissuta (scelte compiute o no, ideee confuse o meno, volontà ferrea o meno)e io sarei contentissima di poter guadagnare facendo cio' che amo ( anzi, forse per la prima volta fra poco guadagnero' qualche miserabile euro per un lavoro che amato molto fare, si vedrà).

Il fatto è che nelle aziende come nel resto del mondo degli umani non è mai tutto bianco o nero, ci sono dirigenti miopi e lavoratori sfaticati,una costante, almeno cosi' sembra emergere dalle statistiche è l'assenza delle donne in proporzione alla popolazione femminile, da posti chiave. A me sembra ancora che per arrivare "in alto" si debba essere estremamente intraprendenti quanto non arroganti, spendere buona parte del tempo e delle energie intorno a quel solo obiettivo trascurando il resto, fare scelte radicali, insomma.
Molte donne hanno poi ancora la sensazione che "quello non é il loro posto" un senso di colpa che si trascinano e che si placa solo passando più tempo in casa con la famiglia.
E i figli?
Altro difficile nodo. Dedicare tutta la propria vita ad essi spesso fa nascere frustrazioni, smarrimento, perdità di un'identità autonoma e cio' ripercuote su di loro.
Non so, mi pare di poter concludere con il titolo del post di Dario "vita difficile...

Anonimo ha detto...

La chiusura del post mi ha lasciata senza parole. Anche se rende bene l'idea di cosa sono "costrette" a fare le donne a volte per essere competitive in un mondo di maschi.
E dire che riusciamo a fare tante cose contemporaneamente e bene. Dovremmo essere a capo del mondo, invece...