martedì 24 marzo 2009

Diritto ad avere una storia

Giulia


In questi giorni in cui dai giornali rimbalzano i provvedimenti del nostro ministro Maroni sugli immigrati, in cui per le strade sento commenti davvero indicibili, mi è venuta in mente una frase di Karen Blixen nella raccolta di novelle "Carnevale"
"Riuscire a trasformare le vicende della nostra vita in racconto è una grande gioia: forse l'unica felicità che un essere umano possa trovare in questa terra".
Ci sono uomini, invece, che non hanno diritto ad una storia, non possono raccontarla a nessuno perchè nessuno nè è curioso nè ha interesse ad ascoltarla. Sappiamo di loro "cosa sono" ma non "chi sono". Vivono dietro a delle definizioni, sono presi dalla rete delle generalizzazioni e le loro potenzialità scompaiono senza speranza dietro la loro funzionalità. Ci interessa sapere se "sono utili o no". Tutti gli altri li vogliamo fuori.
Entrano nel nostro mondo come ospiti poco graditi, come esseri di per sé sospetti e potenzialmente pericolosi. Eppure, se qualcuno per qualche motivo li accosta e desidera davvero conoscerli, scoprirebbe che una storia ce l'hanno e non aspetterebbero altro di poterla raccontare, di poter aprire i loro cuori.
L'immigrato è un uomo che si è disincarnato dalla viva singolarità, è un'entità astratta negativa di cui possiamo dire tutto ciò che vogliamo perchè non sono uomini come noi.
Se un giorno scoprissimo che dietro ogni volto c'è un nome, una vita fatta di giorni e di ore di momenti di gioia e dolore, di speranze e disillusioni, se ci ricordassimo che i più hanno percorso distanze immense per arrivare qui scappando da guerra, fame, povertà, se guardassimo le fotografie della loro famiglia, dei bambini che hanno lasciato lontano, se capissimo che sono qui per una politica sbagliata del mondo cosiddetto "sviluppato"... Solo allora potremmo parlare non di loro, ma con loro.
Sempre Karen Blixen dice "Tutti i dolori sono sopportabili se li si inserisce in una storia o si racconta una storia su di essi". Ma forse noi non abbiamo orecchie per questo e non capiamo che sono loro i primi che non vorrebbero essere qui.
E a sua volta la Arendt sostiene: "La storia rivela il significato di ciò che altrimenti rimarrebbe una sequenza intollerabile di eventi.
"Intollerabile non è una vita che è sempre stata un “no” ma una vita che risulta insignificante, una vita che non interessa nessuno".

Ma tutto questo è vero anche per noi. Credo che tutti avremmo il desiderio di raccontarci e che qualcuno dimostri di volerci davvero ascoltare.

5 commenti:

Anonimo ha detto...

Un post da incorniciare.

E karen Blixen ha ragione: i dolori sono sopportabili se si da loro contorno e storia, ma soprattutto orecchie e occhi perchè vengano ascoltati.
In silenzio, ogni giorno, muoiono tante storie nella più totale indifferenza e solitudine.

annarita ha detto...

Condivido pienamente. A volte ho la sensazine che si si parli addosso senza prestare realmente attenzione a ciò che si dice. Avete notato che nei discorsi a più voci si tende sempre ad esordire con il solito a me invece è successo come se ciò che raccontano gli altri dovesse sempre essere filtrato attraverso la nostra esperienza personale. A me piace di più ascoltare, e a volte per questo motivo gli altri, paradossalmente, ricavano l'impressione che io non sia abbastanza interessata a ciò che raccontano perché non intervengo continuamente commisurando la mia esperienza con la loro. Però senza dubbio queste sono le medesime persone che si comportano con gli altri come spiega Giulia nel suo post. È la solita storia, chiediamo senza mai dare, soprattutto in termini di attenzione e di compassione, nel senso migliore del termine, quello di condivisione.
Salutissimi, Annarita

Solimano ha detto...

Non si può condividere perché è bello e/o morale condividere, si può condividere se si ha voglia di condividere.
Altrimenti, diventa un gioco ipocrita, sterile, velleitario che ha solo l'utilità strumentale di farci sentire buoni. Come quando si faceva ballare una ragazza brutta ad una festa solo perché era la sorella di un amico: tre minuti di noia e finiva lì.
Il punto è a monte: cosa vuol dire, aver voglia di condividere?
Vuol dire essere curiosi, aperti al nuovo (ma anche al vecchio), disposti a mettersi in gioco e a essere sorpresi.
Così si diventa figli di se stessi, non più figli solo della propria storia familiare, culturale, economica, religiosa o di etnia, tutte gabbie a volte confortevoli, ma sempre gabbie.
Così si possono dire dei , che vanno detti e dei no, che vanno detti anche loro, sempre con atteggiamento valutativo, disposti a mutare il sì in no e il no in sì... e a usare spesso anche il se.
E quindi l'apertura vera non è un a prescindere dalle condizioni date, ma è un'apertura verso se stessi, perché il trucco della nostra vita è molto semplice: abbiamo dentro di noi, di ognuno di noi, delle facoltà che non vogliamo vedere e nemmeno immaginiamo. E' questa la scorciatoia per mettersi in presa diretta: saper cercare dietro i nostri occhi prima che davanti.
Il faut cultiver notre jardin, persino Candide alla fine lo capisce.

grazie Giulia e saludos
Solimano

Anonimo ha detto...

Conoscere non è temere ma proprio il contrario, la maggior parte delle volte. Mia madre diviene sempre più bigotta. Ha per quasi unica compagnie le amiche della chiesa e si lascia trascinare da certi discorsi che non hanno nulla di cristiano. E così da poco mi parlava di "omosessuali" con una sorta di ghigno, di espressione di disgusto misurato quasi avesse paura con la parola, di sporcarsi la bocca. Mia madre non era così qualche anno fa e io resto sconvolta da quello che a volte pare diventare.
Le ho detto - P., la conosci, no? Certo! Una brava ragazza.Beh, P. è omosessuale.
Il silenzio le è servito per riflettere alla direzione che stava prendendo e per lasciar cadere i suoi discorsi generalisti.
Conoscere, voler conoscere è importante, essenziale, mi pare.
Grazie Giulia di ricordarcelo.

zena ha detto...

"Riuscire a trasformare le vicende della nostra vita in racconto è una grande gioia".
Io condivido questa affermazione e avverto la gioia di cui parla.
Quando riesco a fermare (ad acchiappare, quasi)un filo di vicenda che esce da una conversazione o da un giro di ricordi, mi pare di salvare un naufrago che finirebbe sommerso.
Per questo amo moltissimo ascoltare.
Un saluto.
zena