martedì 13 gennaio 2009

Claudio Abbado

Giuliano

L'altro giorno mi sono lamentato perché un'intervista bellissima a Claudio Abbado non è stata ripresa da nessuno, mentre divengono oggetto di dibattito per settimane le dichiarazioni di calciatori, veline, ministri fannulloni.
Allora la riporto qui, non senza aver ringraziato il mio amico Angelo che me l'ha segnalata, altrimenti l'avrei persa anch'io.

Abbado: 90mila alberi e torno alla Scala
«Ritornerei solo per un cachet in natura»
(Corriere della Sera, intervista a Claudio Abbado di Giuseppina Manin, 30 dicembre 2008)
MILANO —Un ragazzo col ciuffo, scuro e spettinato. Un capellone, si sarebbe detto in quegli anni, quando la zazzera incolta era il segno distintivo del modo di vivere e di pensare di chi voleva cambiare il mondo. E proprio mentre il mondo era tutto beat, in quel ‘68 fatidico, un trentenne milanese che amava i Beatles e Mahler, veniva incoronato direttore musicale dell’Orchestra della Scala. Aveva solo 35 anni Claudio Abbado. Un’età oggi impensabile per un simile incarico. Il podio più prestigioso del mondo era suo. Una nomina lampo, promossa dagli stessi professori d’Orchestra, che seguiva di poco il suo esordio al Piermarini, nel 1960. Le foto d’epoca ce lo rimandano con la bacchetta stretta tra le dita nervose, la lunga frangia ondeggiante sugli occhi, «dolce vita» nero alle prove, smoking di rigore alla sera. Il gesto elegante e preciso fin da allora. Uguale lo sguardo, riservato e ironico.
Un giovane direttore, già con le stimmate carismatiche del grande interprete. Una stagione miracolosa la sua, lunga 18 anni, dal ’68 all’86. I tempi di «Claudio Abbado alla Scala», come dice il titolo del suggestivo volume (Edizioni del Teatro alla Scala, Rizzoli, pp.329, 60 euro) dove le curatrici, Angela Ida De Benedictis e Vincenzina C. Ottomano, ripercorrono con immagini e documenti, ricordi e testimonianze di artisti e amici (tra cui Roberto Benigni, complice di due Pierino e il lupo) quell’età dell’oro musicale rimasta incancellabile per chi ha avuto la fortuna di viverla.
- E a lei Abbado, cos’è rimasto di quel periodo?
«La memoria di 18 anni intensi e curiosi - risponde il direttore, oggi 75enne -. Un periodo molto creativo per la Scala, ma anche per Milano, a quei tempi vera fucina di idee e di intelletti».
- Il suo arrivo alla Scala coincise con il ’68. E anche lei mise in atto una sua rivoluzione: accostare passato e presente, classici e contemporanei, proporre musicisti inediti, dar spazio alla sinfonica... «Bruckner per esempio, non era mai stato eseguito, nè alla Scala nè in Italia. E anche Mahler. E Maderna, Donatoni, Boulez, Sciarrino... Le grandi prime di Luigi Nono e di Stockhausen. Il Festival Berg, il Festival Musorgskij. L’esperienza di "Musica del nostro tempo" con Pollini e Manzoni...»
- Nomi difficili ieri, e oggi forse anche di più. Come reagiva allora il pubblico, certo poco uso a quelle nuove sonorità sperimentali?
«In effetti non era sempre facile nè indolore. Anche parte della critica aveva da ridire. Fischi e contestazioni ce ne sono stati. Ma gli applausi via via crescevano. Via via il pubblico cambiava, più giovane, più "normale". La nascita della Filarmonica, l’esperienza di portare la musica nelle fabbriche, all’Ansaldo, alla Breda, alla Necchi, ha aperto a nuovi ascolti, ha smosso desideri di conoscere».
Del resto, quando Luigi Nono varcò la soglia del Piermarini con la prima di "Como una ola de fuerza y luz", il primo a esser stupito fu lui stesso. In una lettera indirizzata ad Abbado scriveva nel suo idioma italo-veneziano: «Ti gavevi rasone: se pol smover tuto, perfin la Scala. OSTIA!! E la smoveremo insieme». Difatti. Il concetto di musica, di farla e di ascoltarla, stava cambiando a rotta di collo. Musica non più come evasione ma come impegno. Sociale, politico. Pollini che prima del concerto in Conservatorio legge una dichiarazione contro i bombardamenti Usa in Vietnam tra i fischi del pubblico. Abbado che cancella due repliche del Barbiere di Siviglia in segno di lutto per l’attentato di piazza Fontana.
- E’ vero che alcuni critici vi chiamavano i NAP, acronimo di Nono Abbado Pollini, ma anche dei Nuclei Armati Proletari?
«Sciocchezze. E’ vero che tra noi c’è sempre stata una grande amicizia e una grande consonanza etica ed artistica. Per noi tutti, ad esempio, la cultura era un momento di scoperta collettiva. Per comodità alcuni mi avevano bollato come "comunista", ma io non sono mai stato in nessun partito. Naturalmente ho le mie opinioni, sostengo le cause che mi sembrano giuste».
- Quei suoi anni alla Scala sono stati caratterizzati anche dalla presenza di grandi nomi della regia, da Strehler a Ronconi, da Ponnelle a Zeffirelli, da Ljubimov a Vitez...
«Vero, anche se alcuni di loro allora non erano così noti. Dodin ai tempi era quasi sconosciuto e anche Strehler era molto più famoso per la prosa che per la lirica».
- Lunga la lista anche dei direttori ospiti in quel periodo, da Barenboim a Kleiber, da Bernstein a Karajan, da Maazel a Mehta, da Sawallisch a Solti...
«E Riccardo Muti. L’ho invitato io a dirigere il suo primo concerto alla Scala, nel ’70. Gli proposi anche di lavorare insieme. Certo, avevamo gusti diversi, ma avremmo potuto. Una direzione condivisa, perché no? Lui però preferì restare a Firenze, alla guida del Maggio Musicale ».
- Alla Scala arriverà dopo. Nell’86, quando lei lasciò la direzione del Teatro. Allora si parlò di suoi dissapori con l’Orchestra. La stessa che costrinse poi Muti ad andarsene. E che di recente ha messo in forse la prima del «Don Carlo». Un’Orchestra difficile?
«Non per quel che mi riguarda. Sono sempre andato molto d’accordo con l’Orchestra e con le maestranze scaligere. Le turbolenze esistono in tutte le formazioni del mondo. Però, quegli scioperi così sistematici sono un vizietto tutto italiano. Ci sono altri modi per ottenere le cose ».
- Come vede la Scala di oggi?
«L’attuale sovrintendente Stéphane Lissner è molto bravo, sta facendo un buon lavoro. Immagino gli costi gran fatica vista la città. Milano di oggi non è certo un luogo dove si sostiene la cultura. E neanche il resto, date le condizioni di degrado ambientale in cui versa. Peccato, meriterebbe ben di più».
- E’ per questo che lei non vuol tornare?
«Certo a Berlino l’aria è migliore...».
- E’ la sua ultima parola? Cosa dovrebbero offrirle per farle cambiare idea?
«Un cachet fuori dall’ordinario. Novantamila alberi piantati a Milano. Un pagamento in natura. Se accadrà, sono pronto a tornare. A Milano, alla Scala».



2 commenti:

Solimano ha detto...

Giuliano, non faccio classifiche.
Ho ascoltato dal vivo Abbado e Muti, ed anche Giulini, Sinopoli, Chailly e Daniele Gatti agli inizi. So benissimo che sono molto diversi l'uno dall'altro ma non vedo che gusto ci sia a dire è meglio questo è meglio quello. Tempo perso.
Però una cosa la posso dire trnquillamente: Claudio Abbado, come persona, è il più vasto culturalmente (ma anche Sinopoli non scherzava) e, piccolo dettaglio, il più simpatico.
Ricordo una sera al Conservatorio, quando Salvatore Accardo aveva costituito un ottimo quartetto, che in platea, non assieme, c'erano Abbado e Pollini, tutti e due eveidentemente curiosi di sentire il quartetto di Accardo, costituito di musicisti assai noti. Sia Abbado che Pollini mi danno l'impressione di una curiosità musicale e culturale che è la vera umiltà di cui c'è bisogno.
Naturalmente, proprio perché sono così, hanno raccolto critiche a non finire perché la strada per essere criticati è molto semplice: fare qualcosa che non è stato ancora fatto. E passai diverse decine di pomeriggi domenicali sempre al Conservatorio per il concerti della serie Musica del nostro tempo (che adesso naturalmente non c'è più). Al Conservatorio ci sono duemila posti, a questi concerti c'erano frequentemente un migliaio di persone, numero non da sottovalutare, visti i programmi.

grazie e saludos
Solimano

Giuliano ha detto...

Ad Abbado devo moltissimo, soprattutto il suo messaggio chiarissimo: la Scala è aperta a tutti, la Musica e la Cultura sono accessibili a tutti. Esattamente il contrario di quello che succede oggi, e fa bene Abbado a star lontano da Milano. Quando torna, di solito va a Ferrara.
Concordo su quello che dici, e in effetti Abbado ha sempre avuto l'onestà di non affrontare autori per cui non si sentiva portato: penso a Puccini, ma anche a Johann Strauss quand'era a Vienna (lui era il direttore stabile, ma il concerto di capodanno l'ha diretto una volta sola).
Dal punto di vista musicale, io sono rimasto sotto shock dopo aver ascoltato Carlos Kleiber, e penso che sia capitato a tutti, ho amato molto Sawallisch, e potrei citarne molti altri. Però Kleiber non sarebbe mai riuscito a fare quello che ha fatto Abbado come operatore culturale, un lavoro enorme per cui non finirò mai di ringraziarlo. Già il solo leggere la locandina dei suoi concerti era una sorpresa continua, figuriamoci poi ascoltarli... La stessa cosa capitava con i programmi della stagione della Scala.