sabato 15 novembre 2008

Eluana

Solimano

Ho conosciuto bene Piergiorgio Welby, anche se non l'ho mai visto e non ci siamo mai parlati direttamente. Per anni abbiamo scritto nello stesso blog, quello di Claudio Sabelli Fioretti; frequentemente il commento di Welby ed il mio erano uno sopra l'altro, e si vedono ancora, scavando nell'archivio di quel blog. Scriveva benissimo: colto, brillante, puntuto. Ma negli ultimi tempi faticavo a leggerlo, perché era giustamente ossessionato dalla sofferenza e dal non poter prendere la via per uscirne.
Quando Piergiorgio non ci fu più, Claudio decise di scrivere il libro La mia vita è come un blog e Barbara Melotti ed io gli facemmo da sherpa nello scegliere nel mare magnum dei commenti quelli da inserire nel libro. Ma con i commenti di Welby si pose il problema, perché faticavo a sceglierne dieci fra le diverse centinaia. Ne parlammo, e Claudio decise di pubblicare un altro libro, allegato al primo, un libro contenente tutti i commenti che Welby aveva scritto nel blog. Quindi, uno per uno, in sequenza di data dal primo all'ultimo, me li lessi tutti per eliminare i rari lapsus ma soprattutto le improprietà retaiole (occorre ricordare come era messo quando li scriveva). Alla fine del lavoro, la nostra impressione fu che ci trovavamo di fronte ad una grande e ricca esperienza di vita.
La contrapposizione vita-morte è sbagliata. La vita è una sola, temporanea. Ha un fenomeno iniziale, che chiamiamo nascita, ed un fenomeno finale, che chiamiamo morte. Se proprio si vuole un'antinomia, è nascita-morte, non vita-morte, perché la morte, di per sé, non ha corpo. La frase giusta non è "Quando sarò morto", ma "Quando non sarò più". E' molto diverso, e permette di non cadere nel ricatto propalato da chi ha interesse a propalarlo: importare la morte nella vita, vivendo quindi peggio e più soggetti a paure distraenti dall'unica cosa che c'è: la nostra vita. Ma quando i costi superano i ricavi, occorre saperla e poterla dismettere, la propria vita, e trovo che l'attuale can can pretesco abbia il solito scopo, che ha da sempre: assoggettare i vivi con la paura della morte.

P.S. Come immagine, metto Emmanuelle Riva (Terese) nel film Kapo (1959) di Gillo Pontecorvo. Terese è una donna colta, con una storia morale limpida. Ma quando si accorge che la tragedia del lager la sta privando di quello che è il suo mondo, dei pensieri, della personalità, della dignità della sua vita, sceglie di buttarsi sul filo spinato elettrificato, come estremo atto di omaggio alla propria vita. Che ne pensano, i nostri vestaloni, di una come Terese?


9 commenti:

Barbara Cerquetti ha detto...

Bellissima riflessione.
Non riesco a pensare alla vita come ad un rapporto tra costi e ricavi, forse è l'unica immagine un po' stonata (alle mie orecchie).
Ma sono completamente d'accordo sulla strumentalizzazione del concetto di morte fatta da tanti, per ottenere potere attraverso la paura.
Mi fa tanta pena la famiglia di questa ragazza (Eluana), che dopo sedici anni di tribolazioni viene messa al centro di polemiche fatte al solo scopo di far valere un principio (o un potere) da gente a cui non frega niente di lei.
Credo che di certe cose abbia il diritto di parlare solo chi le vive in prima persona.

Giuliano ha detto...

"Che cosa c'è di naturale in un respiratore meccanico, in un sondino nell'esofago?", cito a memoria una frase di Welby, tagliando le parti più crude (perché non è finita qui, col respiro e l'alimentazione).
A questa domanda non si risponde mai. La risposta è questa: in natura, un malato così avrebbe le ore contate. E' una gran bella cosa che esistano macchine che fanno respirare chi non può più farlo, ma se si va avanti per anni a me viene in mente soltanto quel famoso racconto di Poe.

Roby ha detto...

Io ho visto mio padre (86 anni, malato terminale) attaccato al respiratore e col sondino che lo nutriva (?) infilato nel naso. Ho visto (e vedo ancora, qui davanti a me) i suoi occhi velati mentre mi guardava, cercando di parlare senza riuscirci: la dememza senile l'aveva privato anche di quello!

Un giorno di luglio, chiamata da una telefonata, corsi alla clinica dov'era ricoverato. Nel corridoio mia sorella, pallida fino al grigiore, mi disse, asciutta: "Non abbiamo fatto in tempo".

E mentre lei se la prendeva con i medici "che non avevano fatto abbastanza per salvarlo", io ringraziavo mentalmente tutte le divinità vere o presunte esistenti, perchè -finalmente- dopo mesi e mesi di preghiere mi avevano esaudito.

R.

Anonimo ha detto...

Beh, immagino che qualcuno conosca già il blog di Marina Garaventa, che è il mio faro quando m'impantano tra le nebbie di queste discussioni.
Quindi il mio commento è l'indirizzo del suo blog:

http://laprincipessasulpisello.splinder.com/

Fulmini ha detto...

Certo: nascita, vita, morte sono una cosa sola - vogliamo metterci anche la sopravvivenza? Intendo quella forma di sopra-vita prodotta dagli altri che ti ricordano.

mazapegul ha detto...

Io credo che sulla questione di vita e morte ci sia nel paese una maggioranza morale non rappresentata a sufficienza. La maggioranza di quelli che pensano, col card. Martini (per citare uno che il problema l'ha posto), che "l'importante è morire con dignità".
Una maggioranza di persone che ha visto, attraverso le vicende dei propri famigliari o di conoscenti, quanto sia progredita la cura del sistema cardiocircolatorio e delle altre funzioni vitali minime; progredita, spesso, al di là di ogni ragionevole definizione di vita dignitosa. Non accade quasi più che, magari dopo essersi confessato al prete, il moribondo si giri dall'altra parte e esali l'ultimo respiro (ammesso che una volta funzionasse così), e molti temono di dover passare attraverso anni di decadenza estrema, di invalidità, di semiconsapevolezza.
Un tema, questo, che -al contrario dell'aborto e del divorzio- non ci riguarda solo "potenzialmente", ma che ha a che fare con un passo che tutti dovremo fare prima o poi. E su cui, dal momento che del nostro corpo si tratta, dovremmo poter dire la nostra. E se non siamo più in grado di dirla, meglio che la dica una persona di nostra fiducia, un famigliare, l'amico di sempre; piuttosto che una banda di politici sciacalli, o di pur benintenzionati prelati così affezionati alle maiuscole (Vita, Uomo, Sacralità) da non riuscire più a venire in contatto con le minuscole pecorelle del loro gregge.

Habanera ha detto...

Avevo conosciuto, via Internet, il padre di Eluana frequentando lo stesso forum politico.
E' una persona spiritosa, intelligente, gentile.
Non sapevo, non sapevamo, del suo dramma familiare; era solo un nick come tanti ma si distingueva, tra tanti, per la sua personalità.
Poi un giorno, ai tempi in cui si discuteva del caso di Terri Schiavo, all'improvviso è venuto fuori tutto il suo immenso dolore. Ricordo la sua rabbia per le tante idiozie che si dicono senza sapere di cosa si sta parlando, le parole che gli uscivano a fiotti, come fiotti di sangue, dalla tastiera.
Lo stimavo già prima di conoscere la sua storia, ho imparato a stimarlo ancora di più. Solo in seguito, vedendo alcuni servizi in TV, ho collegato il suo vero nome al nick che conoscevo da anni. Una dignità, una forza morale, un coraggio davvero esemplari. Oggi non posso che essere con lui in quest'ultima, dolorosissima prova che deve affrontare.
L'amore di un genitore è qualcosa di sacro e inviolabile. Ne tengano conto, e lo rispettino, la Chiesa ed i politici tutti.
H.

Solimano ha detto...

I medici e gli infermieri debbono accanirsi, non potrebbero fare diversamente: è il loro mestiere quotidiano in cui i ritrovati più recenti vanno utilizzati, guai se fosse altrimenti.
Sta al malato ed ai parenti del malato poter dire la loro, perché la situazione eccezionale va personalizzata. In questa dialettica medico-paziente non vedo nulla di male e generalmente una intesa si trova, l'ho potuto/dovuto sperimentare.
Trovo invece che l'accanimento ecclesiastico sia un segno di disperazione, come se non credessero più al Vangelo: il nome cristiano viene da Cristo morto in croce. Mentre, per dare un senso della caduta che c'è stata negli ultimi trent'anni, ricordo con ammirazione le parole di un grande scrittore e grande cristiano, Georges Bernanos, che scrisse: "Vivre toute sa vie, mourir toute sa mort, aimer tout son amour". Una tensione, un livello oggi impensabile, e fa specie che nella chiesa attuale manchino le reazioni, gli anticorpi, che ci sono sempre stati.
Un'altro segno di una caduta verticale della fede. Ma se sono loro i primi a non crederci, perché se la prendono con noi?

saludos
Solimano

Anonimo ha detto...

Davvero l'accanimento della chiesa e la volgarità di certi politici mi indigna davvero.
Giulia