lunedì 9 giugno 2008

L'amore imperfetto

“L’arte non è una rappresentazione di una bella cosa, ma una bella rappresentazione di una cosa”. Così diceva Henri Focillon –cito a memoria.
E se estendessimo il concetto all’amore? La cosa è l’incontro fra due persone, ognuna ha di suo la pulsione di dominanza, la ricerca di spazio gratificante, l’autostima e la creatività. Può divenir bella o brutta, la cosa, dipende dalla rappresentazione che i due sono in grado di darne, misurandosi ogni giorno col proprio corredo –lenzuola comprese- e con quello dell’altra persona.
Non solo, ci sono anche le contraddizioni esterne: distanza, età, impegni, figli, lavoro e chi più ne ha più ne metta, non si finisce di trovarne lungo la strada. E’ riduttivo, vedere l’amore in questo modo? Non mi pare, è semplicemente una sfida difficile, una scommessa pascaliana che vale la pena -e la gioia- di accettare. Si può sbagliare ogni giorno, ogni momento, per questo fa gioco ricordare il libro della quasi centenaria Rita Levi Montalcini: “Elogio dell’imperfezione”, parlava d’altro, d’accordo - l’evoluzione della specie -ma non tanto.
Oh! Sarebbe bello, sì, se la pulsione di dominanza fosse ogni giorno raffrenata eppur vigorosa, se le carezze fossero complementari –meglio ancora supplementari- se l’autostima non mostrasse incrinature, se la creatività volasse sempre. Se, se, se...
C’è il giorno -o la settimana, o il mese- in cui la creatività se ne va per i fatti suoi, e noi siamo lì, in attesa del primo sbadiglio, sciagurato ma irrefrenabile come la grandine d’agosto, e si può far poco. Ma allora, come operai tranquilli, sebbene indaffarati, occorre essere pazienti, specie con se stessi, che è l’arte più difficile –essere pazienti con la persona amata è paradossalmente più facile.
Sapere le carezze, accorgersi del loro arrivo, che spesso non le facciamo penetrare fra le dita della nostra mano, chiusa a pugno chissà perché –forse siamo presi da un narcisismo oscuro, esiste pure lui, l’orgoglio del non-amato, gran bella parte nel copione infantile che ci portiamo appresso. E gli esempi sono tanti, a non parlare anche delle vecchie e nuove contraddizioni esterne, sorgono ogni giorno e vanno rispettate –tutte, se sono contraddizioni, non scuse– e pungono peggio dell’ortica. Che poi, la prima delle contraddizioni è quella interna: accettare che una persona -che non siamo noi- abbia uno spazio ampio, sempre più ampio, in noi. Nel nostro cervello, nei nostri neuroni, parlo da riduzionista, non nell’empireo di qualche vagheggiamento assai comodo, che non costa nulla. Mentre l’altra persona, che è in noi, sgomita di suo, non perché è cattiva, non perché non ci ama –lo sappiamo se ci ama o no– ma perché è altra da noi. Tanta fatica, quindi? Sì e no, il compenso c’è in ogni momento, perché l’azione giusta la conosciamo facendola, e allora si respira, accade quello che succedeva ad Anna Carla ne ”La donna della domenica”, che la sera in cui s’accorge di amare e di essere amata dal commissario Santamaria le sembra, da donna, di voler bene a tutti, da suo marito ai tre miliardi di uomini che esistono su questo pianeta. Avvengono, queste cose.
L’amore imperfetto è un soggiorno obbligato, tanti disagi ma il posto è bello, siamo noi ad obbligarci, e ne siamo turbati e contenti. E’ una bella rappresentazione di una cosa, per tornare a Focillon, e noi siamo gli attori e gli spettatori. Richieste insistenti di bis, altro che la mortificazione, morti-ficazione, comoda scorciatoia di uscita per quelli che l’amore lo vogliono perfetto. Amore imperfetto, amore vivo.
20 novembre 2006


P.S. Nelle immagini, Liv Ulmann (Marianne) e Erland Josephson (Johan) in "Scene da un matrimonio" di Ingmar Bergman (1973).

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