mercoledì 11 giugno 2008

49. La soffitta

Frans van Mieris: La ricamatrice (part)
Musée Fabre, Montpellier

Chissà perché, mi trovai quasi nell’estate del 1948 a passare una settimana a casa di mia nonna materna, che abitava a Medicina, un grosso paese in provincia di Bologna.
Non fu una bella settimana, specie all’inizio.
La nonna abitava proprio in centro, in un piccolo appartamento sopra una banca, credo la Cassa di Risparmio, e bambini della mia età non ce n’erano, nemmeno posti in cui giocare. Me ne stavo lì tutto il giorno in piedi o quasi seduto facendo oscillare avanti ed indietro una gamba, ad ascoltare le chiacchiere che facevano la nonna e la zia, che non si era sposata.
Lavoravano insieme, la zia era una ricamatrice provetta, e sul lavoro comandava lei, la nonna le faceva da piscinina, come si dice a Milano. Il lavoro della zia andava bene, era un periodo in cui i matrimoni fioccavano e i corredi di nozze erano indispensabili, senza differenze fra matrimoni religiosi e laici, che già allora a Medicina non erano rari. La zia era religiosa, ma non si lasciava sfuggire tutti i movimenti in corso nel paese, sapeva il momento in cui farsi avanti e il momento in cui era meglio lasciare il lavoro ad una amica e concorrente, una mano lava l’altra. Occorreva la rapidità, non passava molto tempo tra fidanzamento e matrimonio, che spesso più che rapido era frettoloso, sia in chiesa che in comune.
Ma al di fuori dal lavoro, in casa la nonna comandava a bacchetta, con un carattere autoritario che aveva trasmesso alla mamma. A me si rivolgevano in un italiano stentato, fra loro parlavano in un dialetto che non capivo, piuttosto diverso da quello che parlavano fra loro la mamma e il babbo, che più o meno era il bolognese, a metà strada fra Medicina e Sasso Marconi, il paese del babbo.
Per fortuna, stanche di vedermi serio ed annoiato, dopo un po’ mi lasciarono andare nella soffitta, che era al piano di sopra dell’appartamento dove vivevano. Allora non c’era la suddivisione dello spazio fra un inquilino e l’altro, la soffitta era un unico grande locale. Tutto il palazzo era di proprietà della banca, che utilizzava la soffitta in parte come proprio archivio, alla faccia di tutte le considerazioni di privacy che nessuno si poteva immaginare che sarebbero sorte decenni dopo. Per la restante parte, in genere si trattava di oggetti ingombranti di tutti i tipi che le persone si portavano in casa per una necessità che poteva durare anche solo pochi giorni. In genere cose che riguardavano l’alimentazione, in particolare i vini, come bottiglie, fiaschi, damigiane, attrezzi per imbottigliare. Anche scale e taglieri, a pensarci.
Ma soprattutto libri mastri, rubriche e quadernoni della banca, che guardavo affascinato dalle mirabili scritture delle iscrizioni sulle copertine. Oggi non ci badiamo più, ma il fascino di quelle calligrafie non nasceva solo dalla rotondità del tratto, dalla fermezza elegante della mano, ma particolarmente dallo spessore diverso che i tratti avevano, cosa ottenuta certamente con una diversa pressione sul pennino scrivente, in modo che l’inchiostro fluisse di più o di meno. Tutti questi volumi e quaderni erano disposti in modo abbastanza ordinato sul buona parte del pavimento di quella soffitta e mascheravano in parte l’odore tipico di soffitta che abbiamo conosciuto tutti: un odore di aridità polverosa, mentre le cantine sanno di umido.
Così, esplorando la soffitta, il tempo passava, salvo un giorno, nel primo pomeriggio, in cui per più di un’ora non mi allontanai dal finestrino che dava sulla piazza. Assistetti al primo comizio della mia vita. La piazza non era piena - era un giorno feriale - ma tutti i presenti al comizio stavano vicini uno all’altro e proprio sotto l’oratore che parlava senza microfono, nessuno interrompeva il comizio con grida e slogan, solo qualche applauso di tanto in tanto, che cominciai a capire quando sarebbe partito. Nel resto della piazza, non c’era quasi nessuno, non come in anni più recenti che c’è il crocchio più distante di chi è venuto in bicicletta, o se ne sta sotto i portici, o accostato ai muri. O dentro o fuori, a questo arrivai anni dopo. Delle cose che disse l’oratore ne ricordo solo una, mi colpì perché si parlava di armi: “E’ ora di finirla con l’immagine del comunista che ha la pistola in tasca”. Mi aspettavo l’applauso che non venne, li vedevo tutti molto attenti, più di una classe a scuola con un maestro di quelli severi. Allora era ancora tempo di maestri, difatti solo alle medie cominciai ad avere donne in cattedra.

Vermeer: La ricamatrice (part) 23,9x20,5cm 1669-70
Musée du Louvre, Parigi

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