mercoledì 11 giugno 2008

48. Cantarelli a Samboseto

Non ho mai apprezzato gli anniversari, ma quella volta mia moglie ed io decidemmo di andare a cena in un bel posto, dove si stesse tranquilli e si mangiasse bene. Ero poco informato e un amico mi suggerì un ristorante a me non noto, garantendomi la soddisfazione. Telefonai per prenotare, un po’ preoccupato perché quel posto era fuori Parma e in quei giorni di fine febbraio c’era la nebbia. Difatti, appena oltre Fidenza, si fece dura: la strada per Soragna poteva essere insidiosa. Ma la conoscevamo, a Soragna eravamo andati due volte alla Rocca dei Meli-Lupi, famiglia che lì vive tuttora da quasi mille anni, non è uno scherzo.
Solo che dovevamo andare oltre Soragna, a Samboseto, una frazione di Busseto, e faticammo ad arrivarci, sbagliando due volte perché i cartelli stradali si vedevano a stento e solo all’ultimo momento. A Samboseto si trattava di rintracciare il ristorante in mezzo al buio quasi assoluto. Per fortuna scorsi una tabaccheria aperta e mi fermai per informarmi. C’erano diverse macchine parcheggiate lì vicino, alcune con targa di fuori provincia, due addirittura di Milano, in una sera così. Compresi quando entrai nella tabaccheria: il ristorante Cantarelli era lì e ci si entrava dai sali e tabacchi di una drogheria.
Mia moglie scese dalla macchina e fummo accolti da un profumo che conoscevamo già: quello del culatello tagliato fresco, che ci avrebbe accompagnato per tutta la serata, mischiandosi con gli altri odori man mano che arrivavano. Dietro il bancone c’era Peppino Cantarelli che si aggirava anche fra i tavoli, la moglie Mirella ogni tanto si intravedeva, ma aveva il suo daffare in cucina con il Savarin di riso, che divenne famoso anche all’estero, con l’anatra all’arancia e la faraona, anch’essi celebri.
Dei vini che aveva Cantarelli se ne parlava dappertutto, io - personalmente quasi astemio - mi contentavo della migliore Malvasia di Maiatico che abbia mai bevuto, migliore anche di quella dello scherzo che mi fece un cliente della concorrenza. Seduto ad un tavolo di un ristorante reggiano mi permisi di denigrare i vini del parmense, credendo di sfondare una porta aperta. Lui mi guardò in un modo che significava che non l’avevo convinto. Lasciai perdere, era pur sempre un cliente, solo che nel pomeriggio arrivò in ufficio a Parma un cartone con dodici bottiglie di Malvasia di Maiatico ed un biglietto di accompagno: "Caro ingegnere, poi mi saprà dire". Avercene di scherzi così! Feci un doveroso e convinto mea culpa, dal male può nascere il bene, evidentemente.
Di Cantarelli ne hanno parlato i libri, le riviste, i giornali, ora anche nella rete se ne parla con competenze che io non possiedo. Pochi parlano di un fascino apparentemente secondario ma per me fondamentale: era un posto normale, adatto a persone normali, non uno di quei posti, come ne sorsero tanti poi, in cui era più la recita che la sostanza. Da Cantarelli si mangiava benissimo e ci si stava seduti a quei tavoli che sapevano ancora di trattoria. Ci tornammo diverse volte, alcune anche per cene di lavoro, e non sono i ricordi migliori, quelli di sedere a una tavola del genere con le parole raffrenate e i sorrisi che fanno male alle guance. Mentre invece ho un ricordo grato di certe serate in cui si era in quattro, in piena amicizia.
Ero a cena da Cantarelli l’ultima sera che rimase aperto, noi non lo sapevamo, era destino che fossimo sorpresi una seconda volta. Quando apprese che chiudeva, mia moglie si alzò dal tavolo e disse a Peppino Cantarelli: "Voi non potete farmi questo!" Poi andò a parlare anche con Mirella. Non cambiarono idea, certo, ma si vedeva dagli occhi che avevano piacere che una cliente che non veniva più di due o tre volte l’anno facesse loro una simile scena d’amore. Ci andò bene, a pensarci, avessimo telefonato il giorno dopo per prenotare sarebbe stato peggio. Tanti buoni posti sorsero in quegli anni a pochi chilometri di distanza, qualcuno regge ancora: è nelle campagne di Parma, Reggio, Cremona e Mantova la vera grande gastronomia, che per me significa mangiar bene, adagio sì, ma con voracità, come ha da essere, non facendo finta di non mangiare.

Peppino Cantarelli

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