mercoledì 11 giugno 2008

45. L'astuccio

Di quel libro mi colpì il formato, era quadrato mentre quasi tutti i libri sono rettangolari; poi la copertina a fondo bianco, altra singolarità, ma fu il titolo che mi decise a comprarlo: "Disegnare con la parte destra del cervello", lunga storia, quella del mio essere negato per il disegno, alle medie inferiori mi davano 6solo all’ultimo trimestre perché non si può rimandare solo per disegno, suvvia! Quando uscii dalla Feltrinelli di via Manzoni avevo voglia di arrivare presto a casa per fare alcuni esercizi consigliati dal libro. Mi convinse il primo, quello di copiare il disegno rovesciato, ne uscì una qualità che i miei sgorbi non avevano mai avuto.
Allora quel libro aveva ragione! E tutto dipendeva dall’atteggiamento mentale, non dalla abilità manuale... Mi sembrò di essere l’esploratore di un mondo nuovo - sensazione gratissima - e per circa tre anni girai attorno a quel libro ed alle sue conseguenze, che furono centinaia e centinaia di tentati disegni. Comprai matite distinte per la durezza delle mine, album da disegno in formati grandi e piccoli, adottai nuove tecniche: il carboncino, la sanguigna, anche la china, che non usavo più dal primo anno di Ingegneria, in cui c’era l’esame di disegno. Presi uno scatolone di pastelli, credo fossero quarantotto, trovai finalmente dei temperamatite efficienti - grosso problema, le punte altrimenti si spezzavano.
Mi dotai di un astuccio esternamente molto colorato, più grande di quello che avevo usato da piccolo a scuola. Non disegnavo più stando in casa, ma anche in giardino, al Parco di Monza, mentre ero in ferie in montagna o al mare; quindi non potevo trovarmi di fronte a una cosa che mi piacesse disegnare senza essere armato, però stando leggero, portando con me solo l’essenziale: un album di schizzi e l’astuccio con due matite, il carboncino, la sanguigna, sei o sette pastelli - non di più, bastavano - poi anche qualche pastello di cera, che spesso mi si sbriciolava fra le mani, anche il fissativo, essenziale se si disegna a carboncino. Al Parco di Monza andavo in bicicletta, che aveva un porta oggetti sopra la ruota posteriore. Fra gli oggetti c’erano sempre l’album da schizzi e l’astuccio rigonfio, a volte anche un album di formato più grande e un libro.
Quando trovavo il motivo attraente, mi sedevo come avevo imparato a yoga e per prima cosa aprivo l’astuccio. Non avevo ancora deciso le modalità del disegno, restavo lì col naso e gli occhi sopra l’astuccio aperto. L’odore non era quello del vecchio astuccio scolastico, ma in sé lo comprendeva. Credo derivasse specialmente da ciò che il temperamatite lasciava: minuzie di legno, di mine grafitiche, di colori. Un odore assai gradevole, ogni volta era come se scoprissi un mondo segreto e sempre nuovo, un "Introibo ad altare Dei. Ad Deum qui laetificat juventutem meam", come la grande civiltà cristiana ha saputo dire definitivamente. Nuovo sì! Perché ogni disegno è diverso dall’altro e la bellezza non è nel disegno compiuto - so da tempo che non sono mai andato al di là di una ragionevole mediocrità - ma nel disegno mentre lo si fa: si vive al di fuori del tempo, delle contingenze di quel giorno, assorbiti come si è nel tradurre la contemplazione di una cosa in gesto su un foglio di carta. Non si parla, neppure i rumori si sentono, non si bada neppure alla musica, per bella che sia. Qui Betty Edwards, l’autrice del libro, ha perfettamente ragione, contro i detrattori che l’accusano di scarsa scienza: noi abbiamo certe facoltà silenti che occorre saper risvegliare, malgrado l’opposizione delle altre facoltà che non ci stanno ad essere tacitate.
Cosa mi è rimasto di quei tre anni? Non un capitale di disegni fatti, ormai non li guardo più, ma l’atteggiamento di fronte alle opere dei grandi artisti: un silenzio, un ascolto, una capacità di fermarmi di fronte ad essi. Abbandono le guide, abbandono le notizie - utilissime, però prima - perdo il senso del tempo come succedeva quando ero io a disegnare. Però, fermarsi di fronte ai disegni di Durer o del Parmigianino, di Raffaello o di Watteau, è un’altra cosa: gli artisti, liberi dalle fregole delle commissioni e delle rivalità, mettevano in quei fogli il loro io più vero, quello di cui persino loro stessi non erano consapevoli, e lo mettevano così, come si respira.

Watteau: Nudo col braccio alzato 282x233mm 1717-18
Musée du Louvre, Parigi

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