mercoledì 11 giugno 2008

41. English breakfast

La mattina ci alzavamo presto, mia moglie ed io.
Avremmo potuto restare a letto ancora mezz’ora, ma avevamo voglia di goderci con calma la prima colazione, l’english breakfast del Southampton Princess, alle Bermude. C’eravamo per una settimana, insieme ad altre duecento coppie di tutto il mondo, per l’annuale Golden Circle della multinazionale, dagli svedesi ai cileni, dai giapponesi agli indiani ai tedeschi, persino qualche rara coppia africana con le mogli in abiti coloratissimi. Esclusi proprio gli statunitensi, che il Golden Circe se lo facevano per conto loro.
La normalità era che i dipendenti fossero regolarmente sposati. Nessun obbligo, sia chiaro, ma chissà perché si era quasi tutti così. Eravamo già stati in Inghilterra e la colazione all’inglese la conoscevamo, una cosetta simpatica con uova e pancetta, un piccolo sfizio mattutino. Alle Bermuda l’english breakfast era il fiore all’occhiello delle giornate, anche se a casa avremmo raccontato i pesciolini di tutti i colori che ti mordicchiavano il costume, le orchestre diverse sulle due spiagge, una di cinque neri con bidoni grandi e piccoli, l’altra di sette bianchi dal giovinetto all’anzianotto, con un swing un po’ svogliato ma d’improvviso trascinante, il barbecue di due ore a cinque metri dal mare.
Però sapevamo tutti che il tempo dedicato alla prima colazione era il meglio. Continuavano ad arrivare, gli alti carrelli con vassoi di ogni tipo; il centro, d’accordo, era eggs and bacon, che dettava l’odore pungente perché roba fatta espressa, ma prima c’erano i succhi di pompelmo e d’arancia, i corn flakes, il latte, il pane ed il burro, poi, ancora, i salsicciotti, le ova sode, le patate, i funghetti e ottimi pesciotti non troppo piccoli. A volontà, chi voleva prendeva.
Passava più di mezz’ora prima che ci alzassimo da tavola, ringalluzziti dai sapori e dagli odori, quasi spiacenti di andare in spiaggia. Compagnia allegra e superficiale, già noi uomini eravamo competitivi sul lavoro, le donne poi si erano conosciute nel lungo viaggio in aereo. Persone con cui stai bene una settimana, poi torni a casa e te le scordi, con loro hai parlato di tutto e di niente. Avevamo dei motorini a due posti con cui andare in giro, l’isola era abbastanza piatta, e meno male, vista la fatica che faceva il mezzo ad affrontare le salitelle.
Poi, in mare con i motoscafi dotati di paratìa sottostante in vetro per vedere i grandi pesci, bestiacce richiamate col cibo, che ormai la sapevano lunga sui turisti curiosi, in genere ricchi americani provenienti dalla Florida. Prima delle sei di sera, toccava ritornare in albergo e mettersi in giacca e cravatta, questa era la regola non della multinazionale ma proprio dell’albergo a cui gli americani si attenevano scrupolosi, a noi dovettero spiegarla ed insistere, perché non volevamo crederci. Li vedevi, quelli giunti dalla Florida, tutti acchittati col loro inverosimile doppiopetto a quadrettoni, chissà quanto gli era costato!
Ma una sera il nostro gruppone fu al centro dell’attenzione di tutti: sarebbe arrivato proprio per noi Tony Bennett. Mbah! Noi non sapevamo chi fosse, per gli americani era più noto di Frank Sinatra, valli a capire. La serata con Tony Bannett fu un mezzo fiasco, lui capì subito che non era aria, chiese addirittura se doveva smettere, perché molti chiacchieravano. Mentre prima di lui si era esibita Cleo Laine, inglese, che invece apprezzammo, con la sua vocalità vivacissima, piccola di persona e piena di ricci veri, si capiva che erano i suoi. Piacque anche alle mogli, mentre Tony Bennett era adattissimo ai pensionati della Florida.
Il caso fece specie, credo che qualcuno ci rimettesse il posto. A parte le proteste dell’agente dell’artista, la cosa che seccò è che ci avevano propinato il piatto sbagliato, difatti il giorno dopo ne successe una curiosa. Al mattino a colazione, fra un odore e l’altro, si vedeva che gli alti manager erano turbati, c’era stata di sicuro una discussione notturna, di quelle fuori dai denti. Andammo tutti nell’auditorium, e cominciò il programma di quella mattina, con diversi interventi di personalità. Ognuno si aggrappava ai suoi auricolari perché tutto era in inglese e quindi si viaggiava a traduzione simultanea.
Prese poi la parola il number one della multinazionale, quella che operava fuori dagli Stati Uniti. Era un francese, di nome Maisonrouge. Beh, che ti fece? Cominciò a parlare in francese! E si vide l’onda di tutti quelli di lingua inglese a cercare l’auricolare, mentre in genere viaggiavano senza, beati loro. Quella volpe di Maisonrouge stava dando un messaggio a tout le monde: esistevano altre lingue oltre l’inglese, il che voleva dire che chi aveva scelto Tony Bennett aveva fatto una presuntuosa sciocchezza. Capimmo subito tutto e lo spiegammo alle mogli. La volpe si beccò un applauso ben meritato e la settimana finì bene. Ci portammo tutti a casa i due long playing che avevamo trovato sui guanciali in camera, uno di Cleo Laine e l’altro di Tony Bennett -entrambi firmati- assieme al cioccolatone della buona notte.
Era una grande società, quasi una religione, dopo quindici anni divenne una società come le altre, e lo è tuttora. Nell’aereo charter, durante il viaggio di ritorno, la dormita fu generale, malgrado la proiezione di un bel film: una settimana da rompere le scatole ai nipoti raccontandola anche trent’anni dopo.

Cleo Laine e Ray Charles

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