mercoledì 11 giugno 2008

42. Terra rossa

La porta di ingresso della Cittadella di Parma

Andavamo alla Cittadella per giocare a pallone.
C’erano tre campi grandi più diversi ampi prati, nel caso che i campi fossero già occupati. La Cittadella è in alto - non troppo - rispetto alla città, quindi dai bastioni potevamo vedere i campi di tennis dell’A.U.P. Associazione Universitaria Parmense, credo che fossero otto, molto ben tenuti. I giocatori avevano la tenuta regolamentare completamente bianca, compresi i calzini e le scarpe.
Gli sport individuali -tennis, nuoto, sci, atletica- avevano pochi praticanti, ma il tennis sarebbe piaciuto a molti, se non fosse stato che i campi erano in numero limitato ed i costi alti.
Alcuni preti, specie in Parma Nuova, dove c’erano le parrocchie più ricche, riuscirono a dotarsi di uno o due campi, credo che al Corpus Domini fossero addirittura quattro, ma noi stavamo a Parma Vecchia e lì neanche a parlarne, tranne un prete molto sveglio che riuscì a trasformare un cortile adiacente alla canonica in un campo da tennis, con un piccolo difetto: la pianta era trapezoidale -non si poteva fare altrimenti- quindi i colpi vincenti erano quasi sempre quelli che finivano nell’angolo corto.
Fu lì che per la prima volta sperimentai la terra rossa, specie nei dieci minuti iniziali dell’ora a disposizione, che erano destinati a rimettere a posto il campo messo a dura prova dai giocatori dell’ora prima, spesso non dotati di scarpe con la suola liscia. Avevamo a disposizione tre attrezzi: la canna dell’acqua con cui si sprizzava premendo il pollice e l’indice, il tappeto che si trascinava su e giù per il campo ed una scopa di saggina per pulire le righe.
Le minutissime gocce d’acqua arrivavano sulla terra rossa asciutta e, prima di impregnarla, ne alzavano un polverino di cui sentivamo il tipico odore di per sé né piacevole né spiacevole, ma che per noi era gradito, era la prova che entro pochi minuti ci saremmo messi a giocare e ne avevamo una gran voglia. Alla fine dell’ora, con la maglietta bagnata di sudore, avevamo anche la doccia a disposizione -il prete si era proprio dato da fare- che costituiva un ulteriore piacere, prima però occorreva togliersi anche i calzini che erano impregnati dalla polvere della terra rossa, l’odore quindi apriva e finiva l’ora di gioco.
Non avevo preso lezioni di tennis, il po’ che sapevo l’avevo imparato palleggiando contro il muro del casello che dava verso la lavanderia; ogni tanto con il mio compagno di banco andavo a trecento metri dal casello nel vasto spiazzo asfaltato antistante il mercato bestiame, ma quello, più che tennis era un tamburello stratosferico, si faceva a chi tirava più in alto la pallina, spesso quasi sgonfia: le palline costavano e le si riutilizzava molte volte. La conseguenza fu che l’unico mio colpo buono era un drittaccio incrociato che sorprendeva chi non aveva mai giocato con me.
Diversi anni dopo, quando mio figlio crebbe, desiderò provare l’emozione del campo da tennis, e cominciai a passare qualche ora con lui, che pian piano imparava i rudimenti. Cominciò a tener su la palla, e mi chiese di fare qualche partita. Era facile per me vincere, anche se mia moglie cercava di convincermi a lasciargli fare qualche punto; io ero contrario e mio figlio, il giorno che si accorse di questa manfrina, era ancor più contrario di me, se la prese addirittura, preferiva perdere 6-0 o 6-1 senza trucchi facilitanti.
Mia moglie assisteva dispiaciuta facendo un chiaro tifo per il figlio.
Poi, a causa di miei impegni di lavoro, per quattro mesi non giocammo, per meglio dire non giocai io, mio figlio due o tre ore alla settimana le faceva con amici e aveva preso anche qualche lezione.
Finalmente una domenica tornammo su uno dei campi del country club, sempre con mia moglie presente, e cominciammo la partita. Battuta mia. Mi arrivò per risposta una palla sui piedi che non riuscii nemmeno a sollevare da terra. In quei quattro mesi aveva imparato e persi il set 6 a 2 solo perché mio figlio fece degli errori di troppa sicurezza, altrimenti sarebbe stato cappotto. Mia moglie non faceva più il tifo, non ce n’era bisogno, e alla fine del set mio figlio, fresco come una rosa mentre io ero bagnato di sudore, si avvicinò sorridente e mi disse: "Papà, adesso giocheremo più spesso". Risposi: “No, tu con me hai finito di giocare, gioca con chi è al tuo livello". Restò lì serio per un momento, poi capì, si mise a ridere e mi diede una pacca di incoraggiamento sulla spalla. Due anni dopo, sarebbe stato alto come me.

Micòl (Dominique Sanda) gioca a tennis nel film
Il giardino dei Finzi Contini di Vittorio De Sica (1970)

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