mercoledì 11 giugno 2008

39. Yoga

Venne il giorno in cui una amica mi parlò di yoga: aveva frequentato per due anni una scuola qui a Monza e ne era stata contenta.
Ero in una fase di vita di curiosità esagerata, disposto a provarle tutte, purché avessero un minimo di senso, ascoltai quindi attento e decisi di provarci, con ‘sto yoga dell’India misteriosa.
Il maestro era più vecchio che anziano, aveva però una bella barba bianca ben curata, parlava adagio e benché originario del nostro meridione sembrava un bramino. Sua moglie aveva modi accattivanti, non di cortesia falsa, e dipingeva acquerelli ingenui e graziosi, uno ce l’ho ancora dentro l’armadio quattro stagioni. L’ambiente della nostra classe era ambosessi con prevalenza di donne, persone quasi tutte gradevoli, ci si dava del tu con naturalezza malgrado le notevoli differenze di età.
Le due lezioni settimanali si svolgevano il lunedì ed il giovedì dalle 9 alle 11 di sera in uno stanzone-palestra ben tenuto. Il maestro faceva inizialmente una spiega di nuovi asana -gli esercizi yoga, per capirsi- poi li si metteva in pratica, col maestro che camminava fra di noi redarguendo, sistemando, rispiegando. Sapeva il fatto suo, specie le più giovani delle donne lo ascoltavano quasi con reverenza, con loro sapeva essere delicato e gentile, con noi maschi era più brusco e ci chiedeva un di più di impegno. Il tutto si svolgeva senza scarpe, ma non a piedi nudi, ognuno portava dei calzini di cotone spesso, meno certe ragazze che preferivano calzini più sottili. Nell’ultima mezz’ora c’era il momento della verità.
Il maestro sceglieva il primo della classe, cocco o cocca che fosse, e lo disponeva al centro dello stanzone steso a pancia in su, braccia e gambe aperte. Poi completava la stesa in modo che ognuno abbrancasse le caviglie e/o le mani del predecessore, salvo gli ultimi, le cui caviglie erano in plein air, ed io ero sempre fra gli ultimi della ragna. Si stava così per un bel po’, con una musichetta dell’India -sempre misteriosa- in sottofondo, tutti con gli occhi chiusi, salvo qualche birbante -anch’io- che ogni tanto sdocchiava il soffitto in cui c’era una lampadinetta bluastra per non essere proprio al buio pesto.
Un soffuso odore di piedi e di ginnastica si diffondeva, con una gradevolezza quasi mistica: eravamo tutte persone bene educate, attente alle preliminari abluzioni casalinghe, ma reduci da un’ora e mezza di asana impegnativi. Ci stavo bene, stavamo tutti bene, in quella laica religiosità in attesa di non si sa di che. Difatti le donne, quasi tutte, cadevano in trance, anche qualche maschio, e quando rientrava il maestro -che si era fumato una sigaretta nel frattempo- e riaccendeva la luce, li vedevi quelli che erano partiti verso Sangrila o qualche altro bel posto del genere, sempre portandosi appresso l’odorino della ragna. Il maestro passava la mano sul viso dei felici dormienti, ciò bastava a risvegliarli, poi c’era la spiega finale di dieci minuti per consolidare le conquiste raggiunte. Tornavo a casa mia vantandomi un po’ con i familiari che non sempre prendevano sul serio il cammino da me intrapreso, il non si sa di che non riuscivo a spiegarlo bene.
Anni dopo l’ho conosciuta, l’esperienza del trance. Mi prendeva specie ai concerti, se la musica la conoscevo ed era suonata bene; mia moglie mi lavorava di gomito sul fianco per tenermi desto, se no disturbavo i vicini. In casa mi succedeva la stessa cosa, sempre con la musica, c’era un notturno di Chopin che ad una sua precisa nota mi faceva perdere la conoscenza. Mi risvegliavo tre quarti d’ora dopo, il compact aveva finito di suonare da tempo e mi mettevo in tavola -mi avevano tenuto la cena in caldo. Anche al cinema mi successe, specie con certi film panoramici, come "Il Tè nel deserto" di Bertolucci. Durò qualche anno, poi non mi capitò più.
Con lo yoga, feci come la mia amica: smisi alla fine del secondo anno, il maestro era un po’ troppo guru, io ero il solito bastian contrario e quel che mi serviva l’avevo appreso. Gran cosa, lo yoga, ma occorrerebbe farlo fin da ragazzi tutti i giorni per vent’anni, come succede ancora nell’India che è -e resterà- misteriosa. Chiamiamo mistero ciò che non abbiamo ancora del tutto capito, un giorno ci riusciremo e saremo pronti per il mistero prossimo venturo.

P.S. La postura yoga Padmasana in due statue: Shiva a Bangalore (India) e Buddha a Kamakura (Giappone).


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