mercoledì 11 giugno 2008

36. Mensa aziendale

I dipendenti della azienda che non lavoravano a Milano un vantaggio ce l’avevano, quello della mensa aziendale.
Per essere trattati alla pari con chi stava a Milano, dove c’erano vere e proprie mense aziendali, i provinciali godevano di convenzioni con ristoranti locali che erano spesso dei ristoranti da levarsi in piedi commossi, quando in tavola arrivavano i primi ed i secondi.
Così successe per qualche anno a Parma: il ristorante con cui l’azienda aveva stipulato la convenzione era il Leon d’Oro -esiste ancora, onore al merito- non lontano dalla stazione ferroviaria. Non era granché, ad entrarci: una specie di anticamera per cappotti ed ombrelli, poi quattro stanzoni con pochi quadri alle pareti -per fortuna, i quadri alle pareti dei ristoranti oscillano in genere dal naif spinto al grossolano che se la tira.
Appena entrati nel primo stanzone un odore ci prendeva alla gola; non era né buono né cattivo, era un forte odore di cibo caldo, che avremmo capito dopo. I tavoli e il servizio erano più mediocri che buoni.
I primi sì, andavamo già bene, senza punte di gloria ma da raccontarli in casa. Poi, preceduto, accompagnato e seguito dal suo odore fumante, grato ma non delicato, arrivava il carrello dei bolliti, con le salse rosse e verdi -soprattutto- e le verdure d’accompagno. Lo conduceva il titolare, più sgarbato che gentile, che non stava a lodarti o a consigliarti, attendeva impaziente che tu indicassi col dito quel che volevi e col coltello lungo e affilatissimo te ne tagliava una porzione. Se la fetta ti pareva piccola, ne chiedevi un’altra e lui te la dava, sempre sdegnoso. Parole pochissime e il piatto si riempiva di carni di manzo, di pollo e di maiale. Seguiva a breve distanza il più smilzo carrello degli arrosti, con qualche sfizio di bestia strana; io personalmente mi contentavo del coniglio.
Il resto era normale: frutta e dolci che non destavano molto interesse, sazi come eravamo.
Questa cosiddetta mensa aziendale divenne in pochi mesi il centro della nostra giornata lavorativa. Ognuno cadenzava i suoi appuntamenti in modo da essere presente a Parma attorno alle 13. Persino io, che seguivo una zona vasta, le province di Parma e di Reggio più metà della provincia di Modena, trascurai ottimi ristoranti come l’Arnaldo di Rubiera -anche lui armato di carrello- per tornare di frequente a Parma, benché fossi in nota spese.
La notizia si diffuse e ci telefonavano persone che lavoravano a Segrate: per un motivo o per l’altro -tutte scuse- volevano assolutamente venirci a trovare, a Parma. Allora ne ridevo, ma gli anni mi fecero saggio: compresi a mie spese cosa vuol dire essere in più di mille in due palazzi di ottima architettura (Marco Zanuso), ma pur sempre parallelepipedi.
Due colleghi, in particolare, li ho ben presenti. Sforarono col cibo, nel senso che oltre al ticket della mensa ci misero dei soldi loro, per iterare la concretissima sceneggiata dei carrelli. Quando smisero, il titolare, per una volta gentile, si avvicinò a noi e ci chiese perché a Segrate li tenessero a digiuno, quei due.
Ad un tavolo rotondo del nostro stanzone un giorno vedemmo Bernardo Bertolucci, avvolto in un poncho-tabarro, che non poteva usare le mani perché si era fratturato entrambi i polsi, fra i suoi film Novecento e La Luna. Una giovane donna straniera, non so se Clara People o Jill Clayburg, lo nutricava boccone dietro boccone, imboccandolo a forchettate di un bel pezzo di manzo magro e tenero.
Perché il punto è lì: tutti sono capaci di parlare di bollito, ma guai a chi si trova a combattere con un lesso fibroso, che non si sa come domarlo. Il regista si guardava attorno, curioso come da mestiere, aprendo a tempo la bocca per accogliere le delizie fornite amorosamente.
Tutte le cose belle finiscono, prima o poi. Al vertice mondiale dell’azienda approdò un intelligentone che stabilì che i dipendenti erano troppi e le spese alte -aveva ragione, fra l’altro. Scendendo per li rami, questa lontana decisione ruppe il nostro giocattolo di Parma: il Leon d’Oro costava troppo. Altre due volte ci toccò cambiarlo, il posto dove mangiavamo, finché finimmo in un ristorante in cui forse friggevano le patate nello stesso olio in cui friggevano il pesce. Lì cominciò per noi l’era dei tramezzini farciti di mezzodì e toccò rassegnarsi.
Pochi anni dopo, divenuto uno dei mille di Segrate, conobbi una autentica mensa aziendale, bisogna proprio provarle tutte nella vita.
Odori della mensa? E chi ci ha mai badato, ci si nutriva e basta.

P.S. Tre immagini del Leon d'Oro, la prima è d'epoca (il ristorante c'è dal 1917).


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