mercoledì 11 giugno 2008

35. Il loggione

Al babbo diedero, non so come e perché, un biglietto di loggione per la seconda del Trovatore al Teatro Regio di Parma: pomeriggio del primo gennaio 1957.
Il babbo non amava l’opera e mandò me, così fummo contenti in due, lui a starsene a casa, io ad andare.
Amavo già da qualche anno la musica, che ascoltavo per radio: alla mia iniziazione di quattordicenne avevano provveduto il Barbiere, l’ouverture del Tannhäuser, anche la settima di Beethoven; i Concerti Martini & Rossi -al lunedì, mi pare- furono una terapia d’urto considerevole, appresi le opere attraverso le romanze, l’Africana di Meyerbeer o la Favorita di Donizetti non le ho mai ascoltate: conosco quella tale romanza e basta.
Il Trovatore di romanze è ricco per tutte le parti: soprano, mezzosoprano, tenore, baritono, pure basso. E’ un’opera rappresentata meno di quanto si dovrebbe proprio per questo motivo. Al loggione di Parma non si accedeva dall’ingresso principale del teatro, per i teatri storici è quasi sempre così: una porta sul fianco, una scala più stretta che larga su fino in cima.
Sbucai infine, il soffitto del teatro era lì a meno di due metri, il palcoscenico pareva lontanissimo. Nel loggione mancavano quasi completamente le donne, mentre gli uomini -entrati presto, il teatro era esaurito- formavano capannelli in ognuno dei quali c’era uno che teneva banco, che vociasse o che sapesse di più. Non parlavano del Trovatore ma dei cantanti, antichi e del giorno, stabilendo confronti in cui comunque uno era meglio dell’altro, non solamente diverso. Del direttore, dell’orchestra, del coro sembrava che non importasse nulla, men che meno delle scene e della regia.
Qualcuno viaggiava per Bologna, qualcuno persino per Milano, la stagione a Parma era di quattro opere, al massimo cinque, poche per siffatti melomani, ansiosi di confronti. Si conoscevano tutti l’un l’altro, una conoscenza fatta di discussioni, puntigli, ciascuno voleva avere l’ultima parola. Mi aggiravo curioso per ascoltare un capannello dopo l’altro, quasi tutti parlavano del Manrico di quel pomeriggio, Carlo Bergonzi, che non era molto amato pur essendo enfant du pays, come era Renata Tebaldi, invece amatissima.
Il loggione odorava da soffitta, era una soffitta che sapeva di folla, polverosa e stantia. Specie quando ci si sedette mi apparve chiaro il problema: starsene seduto scomodamente, senza appoggiare la schiena e non sapendo dove piazzare le ginocchia, avendo per giunta il fiato degli altri sulla nuca, tutti a stringersi e a sporgersi da quella vera e propria piccionaia. I sedili, praticamente delle assi longitudinali, avevano un sentore non gradevole di legno vecchio, troppo usato.
Guardando in basso si vedeva l’agevolezza delle poltrone in platea, la spaziosità intima dei palchi. Non credo che in loggione si andasse per tirarsela da intenditori, ma perché i prezzi erano abbordabili. La fama dei loggionisti, quelli di Parma fra tutti, era una fama sospetta: in quella soffittaccia, quindi con l’odore di tutte le soffitte, toccava soffrire per quattro ore, la musica ben cantata poteva esserne una consolazione.
Tutti i loggionisti ad alta voce negavano sprezzanti, ma li ho conosciuti di persona negli anni: appena potevano permetterselo, il posto in platea non se lo lasciavano sfuggire, meglio ancora nei palchi così continuavano a trovarsi fra di loro. La compagnia di canto di quel Capodanno era buona: a parte il celebre Bergonzi, gli altri, la Rovere, la Danieli, il Roma, fecero tutti una discreta carriera. Quel pomeriggio prevalse in me la contentezza ma non di molto, la scomodità era dura da reggere per ore ed ore. E gli intervalli incrinarono la mia soddisfazione: critiche a raffica, specie a Bergonzi, tenore più fine che potente -i loggionisti volevano la voce grande. Ma conoscevo già, per mia fortuna, il di quella pira e il balen del suo sorriso e da quella sera fui Conte di Luna per vent’anni, i tenori li invidiavo ma mi sentivo baritono. Questo gioco del loggione -un po’ truccato- mi fu confermato qualche tempo dopo: Renata Tebaldi non prese la nota nel duetto finale del primo atto della Bohème, ciò malgrado quei sapientoni la colmarono di applausi. Gli anni successivi ascoltai molta musica, dalla radio, poi dai dischi, ma passarono decenni e ci volle tanto ascolto dal vivo -specie a Milano- perché sviluppassi un gusto ampio, dal ‘700 al ‘900, dalla sinfonia al lieder, dal pianoforte all’organo ai quartetti d’archi, aiutato da un pubblico spesso competente e dall’ascolto dei grandi esecutori.
E per l’opera? Mi vanno bene quasi solo gli ottimi compact oggi disponibili, non amo le ormai croniche spacconerie di ogni tipo: enti lirici, direttori, cantanti, registi, agenti, pubblico. Preferirei che ci fossero le compagnie di giro del primo '800, che il cappello e la giubba una sera erano di Almaviva e la sera dopo di Dulcamara. La soprano canta ancora al settimo mese di gravidanza, il marito è il suggeritore, il padre del nascituro chissà, forse è l’impresario.

P.S. Le due immagini sono del film "La luna" (1979) di Bernardo Bertolucci.


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