mercoledì 11 giugno 2008

34. Vent’anni dopo

Taccuino sanitatis casanatense, secolo XIV

Quando venni ad abitare a Monza uno dei problemi fu il pane, ci misi molto tempo ad abituarmi al gusto locale, ammesso che di gusto si potesse parlare.
Per un emiliano come me il pane era al centro della tavola, non solo, una merenda pomeridiana da agosto ad ottobre era costituita da un grappolo d’uva bianca, moscato in genere, e da una pagnotta di pane -non delle minori. Non si poteva mangiare la carne senza pane, che però si poteva mangiare da solo, perché no? A cominciare dalla colazione del mattino, il caffelatte con il pane del giorno prima, tutta la giornata alimentare era contrassegnata dalla assiduità del pane, chi non è cresciuto in Emilia fatica a capirlo. Una cosa appresa subito dopo lo svezzamento, portata avanti convintamente, finché toccò farsi lombardi.
Trovai una buona fornaia -buona rispetto a Monza- così per anni difesi le mie abitudini, ma un giorno la fornaia chiuse e mi toccò guardarmi attorno. Trovai un fornaio più lontano da casa, ma ci si poteva contentare. Solo che ci litigai, andò così: era uno giovane, abituato ad avere la bottega piena di donne, non curava l’educazione verso gli uomini, vizio diffuso in Brianza, sembra a volte che siano loro a fare un piacere a te, quando compri.
Un giorno mi etichettò di un: “Cosa vuole, Mister?” Lo guardai e gli dissi secco: “Mister a chi?” Mi guardò male, si scusò a denti stretti. Una settimana dopo rifece il numero del Mister, allora gli dissi, a negozio pieno: “Lei oggi ha perso un cliente”, e me ne andai. Poveretto, vidi dalla vetrina sua moglie, giovane ma più attenta, che se lo guatava per farci i conti dopo. Mi rendo conto che in Brianza a volte la sgarberìa è premio a se stessa, però ritengo sia bene insegnargli a vivere, a certuni.
Restava il supermercato con le sue pagnotte racchiuse nel cellophane e già dotate di scontrino. Ci sono forme diverse, ma il sapore è uno solo, più gommoso che croccante. Odori neanche a parlarne, cari estinti fra il cellophane. Mi ci abituai, a questa vita dimidiata, che aveva una sua comodità: il pane lo compravo per due giorni, tanto più o meno il sapore non cambiava; d’altra parte a Monza ci sono ormai da vent’anni, è bene che me ne faccia una ragione.
Sei mesi fa un negozietto di estetista chiuse a meno di duecento metri da casa mia. Subentrò un giovane fornaio, ma non me ne curai, rassegnato al tran tran del super. Finì che degli amici me ne parlarono bene ed una settimana fa entrai nella bottega, piuttosto piccola -però dietro c’è spazio, dai fornai ci vuole- e vidi numerose scansie con tanti tipi di pane: dal biove alle tartarughe, dal ferrarese (beh... somigliante) all’arabino, dalle michette ai francesini alle rosette, perfino qualche sfilatino e singolari baguette, più cicciotte di quelle surgelate -poi estinte- del super.
Odore risultante buono ma un po’ generico, troppi partecipanti, pensai, vediamo di sfoltirli. Fu allora che montò in me la pulsione libertina di chi può sfogarsi, finalmente: "Mi dia un chilo, però mischiato di quelli lì - e ne indicai tre o quattro tipi -aspetti, anche di quegli altri". "Ma siamo già a un chilo e due etti". "Metta, metta, non si preoccupi". Mi guardò, e credo che mi vide attraverso, questo è un ragazzo più sveglio dell’altro, quello del Mister.
Me ne tornai a casa con un sacchetto di carta gonfio, moderna cornucopia, altro che cellophane da imbalsamatori. E per tutta la giornata, a tavola e non a tavola, continuai a piluccarmi rosette, tartarughe ed arabini, a non parlare del resto. Ognuno col suo particolare odore, sfumature leggermente diverse ma fra loro intonate, modi di manifestarsi, accidenti di una sostanza sola, finalmente: del buon pane fresco, che sta così bene al centro della tovaglia, corteggiato da bicchieri e bottiglie.
Adesso ci vado ogni giorno e cambio sempre formazione: "Oggi tre tartarughe, sei arabini -piccolissimi, che in due bocconi spariscono- una baguette e quattro bastoncini del biove. Domani vedremo". Il giovane fornaio obbedisce, a dire il vero il furbetto ha provato tre giorni fa a rifilarmi un panazzo di pizza un po’ unta, ma sono vecchio del mestiere, l’ha capito e non ci prova più.
Nei duecento metri verso casa una tartaruga la faccio sparire. Non ci credo ancora - sogno o son desto? - speriamo che la pacchia continui.

Pane a Berlino nel settembre 1948

Nessun commento: