mercoledì 11 giugno 2008

32. Lepiota procera

Quel giorno di fine settembre avevo deciso di partire per Berceto verso sera, appena finito il lavoro.
Avrei preso con me mio figlio, allora di quattro anni, mia moglie no, perché il giorno dopo aveva un impegno prescolastico. L’idea era di dormire nella mansarda che avevamo affittato per tutto l’anno, alzandoci però quando era ancora buio, in modo da essere all’alba nei boschi e nei prati dove avremmo cercato funghi.
In tre quarti d’ora arrivammo in paese e come prima cosa andammo in pizzeria, così non dovevo fare spese, cucinare, lavare i piatti. Tornammo nella mansarda abbastanza presto ed ebbi modo di accendere il camino: non ce n’era lo stretto bisogno, ma il camino piaceva a tutti e due. La sveglia fu dura per me, ma soprattutto per mio figlio che difatti si riaddormentò immediatamente in macchina mentre andavo su verso il passo della Cisa.
Dormì poco perché il posto non era lontano. A Berceto tutti li chiamavano i prati della Cisa: quattro chilometri prima del passo si parcheggiava la macchina, poi si saliva per una stradetta sterrata per dieci minuti, infine si sbucava in una specie di altopiano che comprendeva anche un piccolo stagno nella parte più bassa.
Ai prati della Cisa ci si andava anche per giocare a pallone, per fare dei picnic e per prendere piante di cardi rigogliose e spinosissime che per tutto l’inverno avrebbero fatto figura sul mobile basso in sala. Era mia moglie che riusciva a prendere i cardi, io no, non avevo la pazienza di evitare le spine.
Ma noi eravamo lì per i funghi e le premesse non erano buone perché aveva piovuto molto due notti prima e i funghi, per crescere, hanno bisogno di qualche giorno caldo e senza vento dopo che è piovuto, specie i porcini, i funghi che ogni fungaiolo spera di trovare, non raccontiamoci storie. Il pensiero di riserva me l’ero tenuto: se mancavano i porcini, i prati della Cisa erano ottimi specie per le mazze di tamburo -lepiota procera- un fungo saprofita grande e bello, ma ci si trovavano anche porcinelli, prataioli, persino qualche galletto, benché non fosse il loro posto migliore.
Come prevedevo, porcini non ne trovammo, d’altra parte quel posto era così, nove volte su dieci niente porcini, ma se li trovavi erano splendidi, mentre compresi subito che avremmo riempito con le mazze di tamburo i due cestini di vimini che mi portavo dietro: una decorosa seconda scelta.
Mio figlio non si stava divertendo, allora inventai un gioco semplice. Le mazze di tamburo sono funghi molto visibili perché crescono nei prati e nelle radure, non nel fitto del bosco. Le vedevo a distanza, quando ancora mio figlio, piccolino, non le aveva scorte. Mi avvicinavo facendo finta di niente finché era lui che le vedeva, indicandomele con l’indice tutto trionfante.
Quante ne trovò, quella mattina!
Una per una ne sentivamo l’odore di nocciola che è tipico loro -la cosa curiosa è che nei prati della Cisa i noccioli sono tanti- e appena raccolte le mettevamo nei due cestini. Fu un bel problema, farcele stare tutte. Complici le piogge dei giorni precedenti, trovammo mazze da Guiness dei primati: misurai il diametro della cappella di una in particolare quando fummo di nuovo a casa: 34 centimetri, una enormità! Ma le più grandi non si mangiano, le più buone sono quelle in cui la mazza comincia a trasformarsi in parasole, altro loro nome volgare.
Una volta riempiti i cestini con l’aggiunta di diversi porcinelli e prataioli, riattraversammo tutti i prati della Cisa. Eravamo avvolti dall’odore di nocciole e da un sentore di umido, in particolare mio figlio che aveva il naso non molto sopra i cestini.
Dormì sdraiato sul sedile posteriore della macchina per tutto il viaggio verso Parma. Alla sera, mazze di tamburo impanate e fritte per tutti, compresi alcuni amici, per noi erano troppe. Il prodigio dei 34 centimetri, con le altre grandi, lo lasciammo sbucare fuori dal cestino per una settimana prima di buttarlo, ma ho ancora i testimoni.


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