mercoledì 11 giugno 2008

30. Madame Tellier

A Parma abitavo proprio di fronte all’ufficio, bastava che attraversassi la strada. Quando ci trasferimmo da Udine vedemmo un cartello “Affittasi”, l’appartamento ci piacque e combinammo rapidamente. Era l’ideale per uffici con l’aria condizionata, un po’ meno per una famiglia che abitasse al quarto ed ultimo piano, come noi. Appena in strada, a destra c’era un grande bar e nei primi tempi io e i colleghi di ufficio il caffè lo prendevamo lì. Solo che era un posto mal frequentato e il barista oscillava fra viscidità e sgarberìa.
Ho imparato negli anni che è il barista a scegliersi i clienti, non viceversa: questa è l’arte. Quel barista non la conosceva, cercava di prendere tutto quello che gli capitava, trattando i clienti in base a un suo organigramma: ai vertici il direttore di banca ed il dentista, clienti non molto assidui però. Forse aspirava ai Lyons o addirittura al Rotary, le ambizioni sono a volte sconfinate. Lo zoccolo duro, noi impiegati di aziende e di banca, sbuffava, mentre ai perdigiorno andava bene, si piazzavano a un tavolino berciando tutta la mattina senza tenere in cale gli sguardi desolati del barista.
Cercammo una alternativa e la trovammo a duecento metri di distanza: un bar piccolo, però d’angolo e quindi luminoso. Non c’era modo di sedersi, via i perdigiorno quindi -è dura chiacchierare per ore stando in piedi. Era un bar specializzato, gran parte delle consumazioni consistevano in caffè: amaro, dolce, con una goccia di latte, corretto -perché no?- la base era sempre il caffè. I migliori della mia vita - odorosissimi - li ho bevuti lì, da quella barista di poche parole, con caffettiera modernissima e luccicante. Gli aromi e gli odori salivano dalle tazzine e la pulizia era impeccabile, lì dentro.
La barista non diversificava il modo di fare a seconda dei clienti, usava lo stesso per tutti; arrivavano in genere a gruppi di quattro o cinque di prima mattina, poi verso le undici, poi alle tre del pomeriggio. Poche le paste, pochi anche i liquori per l’aperitivo, niente stuzzichini o quasi. Un business scarno ed essenziale, da portare alla Bocconi come success story, la barista ed il suo caffè.
Era sui cinquant’anni, troppo mora di capelli per crederci, acchittata bene, prosperosa più che sfatta, molto truccata in viso: labbra, guance, occhi, ciglia, sopracciglia; anche le mani non scherzavano, smalto rosso e robusto. Riusciva a non scottarsi e a non insudiciarsi. Un prodigio di nettezza, uno sguardo deciso, sempre lo stesso rivolto a tutti, un sorriso appena accennato di fronte alle battute di lavoro che ogni tanto ci si faceva, era il riserbo fatto persona.
Parma è stata capitale, ma ha un fondo di città di provincia, le cose prima o poi si imparano, e noi, che lavoravamo per gli americani, fummo gli ultimi a saperlo. I bancari, i commercianti, gli impiegati dello Stato e del Comune lo sapevano da anni: la barista aveva investito nel bar la liquidazione che si era costruita con un suo trentennale lavoro autonomo -niente protettore, si era protetta da sola. Chissà se avrà contato gli anni, i mesi, i giorni con il conto alla rovescia dei militari di leva. Credo di no, avrà certo esercitato il suo lavoro precedente con l’impegno tranquillo che metteva nel bar: fino ad una certa età andava bene, dopo, meglio aprire un caffè, e lasciare spazio alle giovani, che lo spazio se lo sarebbero comunque conquistato da sole.
A pensarci ora c’è una cosa di cui mi accorgo ed a cui allora non badai: in quel bar non ci ho mai visto donne. E mai ho sentito un discorso grossolano, forse qualche ghignetto, ricambiato da un veloce e breve contro-ghignetto alla ci siamo capiti. Chissà a chi è andato a finire in mano quel bar, a qualche nipote contadino o alla collega nel lavoro precedente. Di una cosa sono certo: caffè così odorosi e saporosi non li ho più trovati. Li cerco ancora con fiducia, ma la professionalità di Madame Tellier è oggi introvabile. Ah, les neiges d’antan!

P.S. Le due immagini provengono dal film "Le plaisir" (1951) di Max Ophüls.


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