mercoledì 11 giugno 2008

29. Esercizi spirituali

Sulle colline di Genova, in via Chiodo, i Gesuiti tenevano tre giorni di Esercizi Spirituali a noi quaranta, arrivati tutti insieme in treno la sera precedente.
Al mattino come prima cosa ci fu la messa, la colazione dopo perché la comunione si faceva da digiuni. Poi tornammo in chiesa e uno dei due Padri Gesuiti a noi destinati (ci sono anche i Fratelli) iniziò la prima delle quattro prediche della giornata. Alto, capelli neri, sui cinquant’anni, con gli occhiali, un’aria più amara che seria. Non ispirava confidenza, nessuno di noi si sarebbe sognato di sceglierlo come direttore spirituale, che era un dippiù di fresca moda rispetto al solito confessore da tre pater ave gloria.
Cominciò a parlare e capimmo le ragioni del suo riserbo che ci era parso scostante: era concentrato in sé per svolgere al meglio il suo difficile compito, di fare quattro prediche al giorno per tre giorni di seguito ed ogni predica durava più di un’ora. Qualcuno ancora oggi parla ironicamente di eloquenza sacra, come se fosse una lungagnata di buoni sentimenti. L’eloquenza sacra di quel Gesuita era un prodigio sceso in terra a miracol mostrare. Niente microfono né pulpito, tanto meno gli audiovisivi che oggi se non ci sono nessuno parla: c’era solo lui, vicino alla balaustra dell’altare a raccontarci il primo giorno come l’uomo è cattivo e meritevole dell’Inferno, il secondo giorno che però Dio è buono più della nostra cattiveria, possiamo sperare nel Purgatorio, il terzo giorno che il Paradiso è nostro, ci aspetta, solo che dobbiamo darci da fare ancora per un po’ su questa terra.
Frasi impeccabili, parole sempre quelle giuste, fluenti citazioni in latino che subito traduceva perché anche noi ignorantoni capissimo. Senza sforzo, ma neppure troppa facilità da autorevole bla bla. Ne ho sentiti, di oratori incantevoli: La Pira, Balducci, lo stesso Pasolini, ma quel Gesuita non temeva confronti. C’era portato, ma chissà quanti anni gli ci erano voluti per arrivare a quel livello. Solo certi grandi pianisti o violinisti li ho trovati paragonabili.
Fine della prima predica. In silenzio -tre giorni di silenzio- si torna in camera, ognuno nella sua, completa di tutto: Bibbia, altri libri sacri, inginocchiatoio con crocefisso sulla parete. Ci veniva a trovare in camera l’altro Gesuita -quello del corpo a corpo- e dal non sapere che dirgli li tiravamo fuori, i nostri problemi individuali. Un’arte anche la sua, ma più spicciola.
Seguiva la seconda predica, ulteriore nostra seduzione, quasi non respiravamo, muoversi men che meno. Poi tutti a mangiare e lì c’era la cosa strana: l’odore, in sala da pranzo, era l’inesistenza di ogni odore. Bella arte anche quella, di mettere a tavola quaranta giovani affamati e dargli da mangiare della roba che non fa odore. Brodino o pasta quasi scotta dipinta appena dal pomodoro, bistecchina con verdura cotta o un pesciotto asettico con patate lesse, una pera magari cotta, rischi di peccati di gola nessuno -anche i sapori erano inesistenti o quasi- e noi tutti zitti, mentre un Fratello leggeva con passione brani di Teresa di Lisieux e di Giovanni Bosco, che lodava Domenico Savio perché aveva rifiutato di andare con i coetanei a fare il bagno nel canale. Due santi, uno morto a quindici anni, l’altra a ventiquattro, proprio la nostra fascia di età, da farci gli scongiuri.
Faticavo a reggere questa solfa di lettura, perché il Fratello ci metteva del suo con una voce incrinata, mezza bianca. Per tre giorni l’unico nostro sfogo vocale era il rosario, che recitavamo nel pomeriggio camminando attorno alla Casa dei Gesuiti, a voce molto alta per il bisogno di sfogarci.
Agli Esercizi Spirituali andai per quattro anni di seguito, quell’anno fu la prima volta. Tornato a casa, il giorno dopo andai dal barbiere. Entrò uno dei paraggi, un vecchio di trent’anni che si mise a parlare di certe sue attività per cui era ben noto a tutti e a tutte. Il barbiere lasciava dire, più sbalordito che ammirato. L’ansia salvifica mi usciva da tutti i pori e per dieci minuti pensai di alzarmi in piedi e di convertirlo facendogli smettere di fare quelle cose, una volta per sempre. Ma non ebbi l’ardire di farlo -era grande e grosso- e continuò a peccare. Negli anni successivi la presi con un po’ più di calma, ma il Gesuita, quello delle prediche, oggi continuo ad ammirarlo e riuscirebbe ancora a convertirmi, più per ammirazione che per paura.

Juan Martin Montañés: Ignazio di Loyola (part) c.1610
Legno policromo Cappella dell'Università di Siviglia

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