mercoledì 11 giugno 2008

27. Il mosto

I filari di uva nera erano cinque, di cui quattro nell’orto.
Il quinto era nella scarpata, ma proprio a metà del filare sorgeva un albero di noci che danneggiava la produzione d’uva di alcune viti. Vicino al casello c’era il pergolato con l’uva bianca -quella che mangiavamo- frequentata dalle vespe che rompevano le bucce degli acini; le api arrivavano dopo ed era meglio così perché asciugavano gli acini e non insorgevano muffe. L’uva nera serviva per fare il vino e le vespe non la trovavano interessante.
Il babbo era aiutato per l’orto e per il frutteto da un operaio veneto, un contratto di mezzadria sulla parola. A fine settembre facevamo la vendemmia, prima però il tino era stato portato nella lavanderia. La vendemmia era più divertente che faticosa, tutti partecipavamo, anche due o tre amici del babbo. Servivano i contenitori di vimini, di facile acquisto, era un mestiere che molti sapevano fare e i canali erano affiancati da salici.
Poi si passava alla pigiatura e qui il babbo chiamava un suo cantoniere. Famoso per le dimensioni dei piedi, per prenderlo in giro gli dicevano che appena nato era più lungo come piedi che come corpo, lui arrossiva e lasciava dire. Onorato di essere stato scelto come pigiatore, per scrupolo si lavava con accuratezza i piedi ed i polpacci in una catinella, le sue gambe erano polpute e bianchissime, non avevano mai visto il sole. La mamma gli diceva di smettere di lavarsi i piedi, altrimenti lui avrebbe continuato.
Una alta catinella zincata veniva riempita di grappoli d’uva, il cantoniere saliva sopra l’uva e sembrava rimbalzare sui grappoli gonfi, poi sprofondava adagio sino ad avere le ginocchia quasi sfiorate dal liquido. Si versava il contenuto della catinella nel tino e via col secondo giro. Alla fine il tino era pieno per tre quarti e qualche giorno dopo mi sorpresi quando vidi che il livello era salito fino a raggiungere e superare con le graspe la sommità del tino.
L’aspetto e la sostanza del mosto erano quelle di una forma viva, il suo odore si sentiva subito appena varcata la porta della lavanderia, un odore singolare e penetrante, lo chiamerei un odore esagerato, ma di per sé non sgradevole, a starci solo qualche minuto. Miriadi di moscerini si erano data voce chissà come e coprivano completamente la parte superiore del mosto.
Per tutto quel tempo, ne passavano di giorni fra una cosa e l’altra, la lavanderia non era agibile. Finalmente veniva tolto il tappo nella parte bassa del tino; si procedeva con attenzione, perché il getto di vino era pieno di forza, e non se ne voleva perdere neanche un po’. Col mosto non finiva lì: il babbo voleva anche il mezzo vino e il vinello, tutto andava fatto, anche se non ne avevamo alcun bisogno perché il vino bastava a noi ed ai parenti. Il momento magico era già passato, la forma odorosissima del mosto non c’era più e me ne disinteressavo, mentre prima la contemplavo annusando diverse volte al giorno.
La mamma sapeva prepararci i sughi, ottenuti credo dal deposito che era restato nel fondo del tino: ne eravamo molto ghiotti. Le damigiane venivano portate in cantina, poi si sarebbero riempite le bottiglie, attività che mi incuriosiva, e mettevo io i tappi con un arnese che somigliava al cavalluccio a dondolo che non avevo mai avuto.


Due particolari degli affreschi del Veronese a Masèr (1560-61)


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