mercoledì 11 giugno 2008

26. Generalife

A Granada rischiammo di non andare.
Eravamo partiti per il viaggio di nozze da Bologna con la Fiat 124, poi la nave canguro a Genova, poi Barcellona, Valencia, Alicante, Murcia. Lì si pose il problema, il caldo incredibile che faceva benché fossimo ancora in aprile. Avevamo tutti e due una gran voglia di mare ed avremmo potuto girare a sinistra, verso Torremolinos e Marbella, ma prevalse il tener fede al programma che ci eravamo dato: Granada-Siviglia-Cordoba e poi su, verso Toledo-Avila-Segovia.
Il viaggio fra Murcia e Granada fu opprimente, oltre al caldo c’era la strada non agevole ed il paesaggio montagnoso e arido; sospirammo, in quelle ore, sognando la dolcezza di essere al mare, in quella calda primavera del nostro viaggio di nozze. Finalmente arrivammo, e Granada ci sembrò una città come le altre, a parte la meraviglia della Sierra Nevada -di nome e di fatto- lassù. Poi scorgemmo da una parte l’Alhambra dall’altra l’Albaicìn -il quartiere arabo- e respirammo.
La mattina dopo entrammo presto nell’Alhambra, un posto che per quanto te ne parlino ti sorprende. Così ne ho conosciuto solo un altro di genere affatto diverso: i laghi e le cascate di Plitvice. Anche quella mattina era calda, ma l’Alhambra fu costruita tenendone conto e prendendo le contromisure opportune, non solo la freschezza della temperatura nelle stanze, ma anche la leggerezza dell’architettura, la fantasia decorativa, gli specchi d’acqua, le fontane, gli alberi. Malgrado i turisti, tanti già allora, all’Alhambra avvertimmo un silenzio più rispettato che visitato da soffici suoni di fondo.
In una stanza mia moglie si sedette sulla seggiola del custode, in quel momento assente. Stava lì, con la testa lievemente appoggiata agli azulejos della parete, quando ci fu un flash: uno sconosciuto turista con la borsa della Pan Am l’aveva fotografata, le fece un gran sorriso proseguendo il suo giro. Me lo vedo, oggi, il briccone, nella sua casa del Connecticut o del Minnesota, mostrare quella foto a figli e nipoti, cianciando di tipica bellezza andalusa -che invece sono piccole e more. Va detto che le andaluse -forse gitane- nel flamenco vanno benissimo e ce ne accorgemmo la sera stessa - spesso piccole anche di età.
C’erano da visitare i giardini, cosa è mai un giardino, dopo aver visto l’Alhambra. Solo che il Generalife in quei giorni quasi di maggio non era un giardino, era il Paradiso.
Mentre cammini per il suo disegno regolare -il Generalife è tutto, tranne che selvaggio- il profumo delle piante e dei tanti fiori ti avvolge completamente, modulato passo per passo dalle diverse essenze che incontri, che non contrastano l’una con l’altra, si fondono in una armonia concorde, altro che discorde.
Ce n’era di gente, lo sbalordimento era generale, le bocche aperte, le poche parole che si scambiavano lo confermava, le fotografie di gruppo non disturbavano, quelle di coppia commuovevano, ce n’erano di coppie come noi: ci riconoscevamo e praticammo un casto scambio di coppia passandoci le macchine fotografiche, in modo da non scindere ciò che Dio -o il sindaco- aveva unito pochi giorni prima. Una coppia in particolare, dopo averla vista per la prima volta sulla nave canguro, continuammo a incontrarla per buona parte del viaggio, almeno fino a Segovia; solo a Madrid la perdemmo di vista, senza esserci mai presentati, più per riserbo che per timidità. In viaggio di nozze non si cercano nuove amicizie.
Uscendo dal Generalife e dall’Alhambra, scorgemmo il palazzo di Carlo V, edificato nel ‘500 dai figli dei conquistatori. Ci sembrò triste, polveroso, abbandonato, e non lo visitammo: la grande civiltà sconfitta si prendeva la rivincita . Ho imparato in questi anni che le cose non stanno esattamente così, l’arte del rinascimento spagnolo è importante, anche bella a suo modo, ma l’Alhambra e il Generalife furono la vita, non so se più terrestre e celeste, di quella stagione e di quell’ora.

Nel Generalife

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