mercoledì 11 giugno 2008

25. Il gesso

Il punto fu che incontrai Mirella, prima di entrare nell’aula di Analisi dell’Università di Parma. Era la mattina di giugno in cui dovevo sostenere il mio primo esame del biennio di Ingegneria: Analisi Matematica.
Mirella era la più avvenente fra le studentesse di Matematica che frequentavano le lezioni con noi studenti di Ingegneria. Alta, mora, pelle bianca, occhi chiari, tutt’altro che magra, aveva la tranquillità della ragazza che sa di piacere e ne è contenta ma non per questo si dà delle arie.
Io ero timido di una timidezza orgogliosa, non esangue, che quindi ogni tanto si convertiva in esuberanza e così fu quella mattina, colpa anche del vestito estivo che indossava Mirella, fresco e con una gonna a campana che aggiungeva rotondità a rotondità. Cominciai a corteggiarla e per venti minuti non smisi. Tante ne inventai e Mirella mi guardava negli occhi con un sorriso meravigliato, più coinvolta che irridente.
Finché un amico venne ad avvertirmi che lo studente prima di me aveva gettato la spugna, quindi era il mio turno. Mi toccò lasciare Mirella ed entrare nell’aula, rosso nel viso felicemente agitato. L’ordinario di Analisi non piaceva a me ed io non piacevo a lui, come dato di partenza. Era piuttosto magro, di pochissime parole, labbra sottili, una calvizie molto pronunciata. Preciso all’eccesso, in matematica occorre esserlo, ma lui pativa se nelle ascisse o nelle ordinate non c’erano due trattini prima della freccetta finale.
La regola -una vera trappola- era che lo studente scegliesse lui l’argomento della prima domanda ed io avevo scelto il teorema di Weierstrass. Solo che lo affrontai con la stessa furia di parole che avevo prodigato a Mirella e all’ordinario sembrò che io celassi in tanta eloquenza il non aver ben capito il teorema. Mi ascoltava sempre più disgustato.
Ahi, pensai, questo mi boccia, e credo ne avesse intenzione ma voleva essere a posto con se stesso, quindi bocciarmi in modo coerente come le sue ascisse. Decise di farmi una seconda domanda, si accostò alla lavagna e col gesso scrisse una derivata sesta, ricchissima di parentesi e di esponenti di ogni tipo. Chi non sa di analisi si immagini di dover sciogliere un nodo sei volte replicato e ben stretto: non c’entra niente ma rende l’idea. Poi l’ordinario mi cedette la lavagna, sedendosi per contemplare i miei tentativi e poter poi procedere ad una bocciatura conclamata.
Solo che il mio orgoglio mi soccorse perché mi rese freddo -chi ci pensava più a Mirella? Cominciai con studiata lentezza a riempire di numeri e simboli la lavagna, che era molto ampia. Niente stridìo di gesso, lo conducevo adagio dopo averlo spezzato in due e ne sentivo l’odore, specie quando usavo il cancellino per far posto a sempre nuovi calcoli, senza saltare neppure un passaggio, per non rischiare. Un odore che mi dava calma e autorevolezza, per ciò stesso gradevole. Ci volle il suo tempo e ce ne misi di più del necessario, ma riuscii a risolvere la dannatissima derivata sesta, a ridurla ad una formuletta finale che sembrava incredibile scaturisse dai passaggi di cui era colma tutta la lavagna.
L’ordinario mi guardò amaro, non disse né sì ne no, mi fece due domanducce poi mi diede ventidue, a suo modo onesto, ma cattivo. Con lieta furia impugnai il cancellino e quattro vigorose bracciate fecero sparire tutto il formulario, levando una polvere allegra per la festa di avercela fatta, sebbene tirata.
Allora mi ricordai di Mirella, presi il libretto e corsi fuori dall’aula per cercarla. Mi dissero che se n’era andata con Violi, uno studente dotato di macchina, per di più reggiano.

Campana dello Zar nel Cremlino di Mosca

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