martedì 17 giugno 2008

15. Quella cosa lì che sei tu

Per molti mesi, anche a voler prescindere dalle crisi di noia agitata, che in certo modo erano la punta dell’iceberg, non mi era piaciuto vedermi vivere, per ciò stesso nessuna forma di vita al di fuori di me poteva piacermi. Una continua amarezza, una infelicità regolare, divenuta sistema, modo di essere. Tutto era seccante, dall’infilarmi un calzino al deglutire un boccone, dall’incrociare un passante al ricevere una telefonata, all’udire suonare il campanello della porta.
Credo sia questo il punto che più faticano a comprendere coloro che non hanno sperimentato la depressione. Conoscono la sofferenza, il dolore derivante da malattie o da lutti o da amori, ma è altra cosa, forse più acuta, ma meno continua. Le normali incombenze della giornata non riescono a distrarre dalla depressione, una specie di perenne alta marea. Il dolore è invece un mare agitato, che si aspetta solo che si calmi, si sa che prima o poi succede.
Con la depressione non è così: vorresti che non ci fosse, non sai che fare perché non ci sia. Neppure la speranza -virtù sospetta- può aiutare, perché richiederebbe una azione concreta nel qui e ora, finalizzata a un esito, che però non vedi. Né serve rincorrere o cambiare, se possibile, il mitico "senso della vita": che tu dia retta a Darwin o alla religione cambia poco, si tratta di credenze, non di esperienze. Mentre è di esperienze accettate e fatte proprie che c’è necessità: esperire la propria vita, quindi, che è altra cosa che attribuire ad essa un senso che sono convinto non abbia, impegnata com’è nel mantenersi.
Non esiste l’illuminazione della grande esperienza contrapposta alle minuzie delle esperienze spicciole, è che pian piano ti succede di accorgerti delle cose, per piccole che siano, un merlo che becchetta delle briciole, il glu glu che fai deglutendo un caffè, il colpo di tosse del vicino di casa, la lucertola che corre sul muro di fronte, il gusto delle ciliegie una via l’altra, la doccia troppo fredda. Esperienze usuali, solo che non ci badavi, non le sentivi più tue. Difatti alcune le ho raccontate, non per fare del minimalismo -come mi è stato detto- ma perché le percepivo come se mi accadessero per la prima volta. Possono essere piacevoli o spiacevoli ma il punto è farle proprie, imprecando magari, se danno fastidio.
Un depresso non impreca, si ritrae.
Essere fuori dalla depressione vuol dire tornare a esperire la vita, bella o brutta che sia, unica però, quella cosa lì che sei tu. Senza i farmaci, l’affettività, l’autoanalisi, la volizione non credo che ci si arrivi, ma il passo decisivo è questo esserci nella propria vita.

Buster Keaton in "Sherlock Jr." (1924)

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