mercoledì 11 giugno 2008

12. I cavoli di Mosca

L’albergo era imponente.
Portoni, scale, sale, camere, bagni, finestre, tutto fatto col pantografo.
Dopo ogni rampa, un tavolo vasto e massivo riservato alla responsabile di piano, una donna anziana dagli occhi duri che se ne stava lì seduta tutto il giorno, impartendo ordini e scrutando i turisti, raggruppati in comitive.
Sì, la Russia (URSS per l’esattezza) si poteva visitare, ma con viaggi organizzati. Comandava la trojka: Breznev, Kossighin, Podgornj. Alla sera si cenava in albergo, e non c’erano solo i turisti, anche la nomenklatura in contemplazione di se stessa.
Massicci gli uomini, pienotte le donne.
Gli uni, con vestiti dei grandi magazzini Gum, tutte le variazioni possibili fra il grigio scuro e il nero chiaro, camicia bianca e cravatta con il triangolone del nodo a scapino, ormai sparito in occidente.
Le altre, con abiti neri, maestosi e dozzinali al tempo stesso, castano-bionde con pendagli alle orecchie.
Su un palco, l’orchestra, che più tardi avrebbe accompagnato la cantante quarantenne con le romanze nostalgiche e tonanti.
Fra i tavoli, sotto lo sguardo di capi occhiuti, frotte di camerieri portavano il cibo, più o meno uguale per tutti: carne di porco, broda, verdure scotte, specie cavoli. Abbondantissimo, la nomenklatura ne godeva visibilmente, noi turisti molto meno. Ci si nutriva, tutto qui, stanchissimi dopo i giri della giornata, pianificata all’estremo. Il porco, la broda e il cavolo mischiavano i loro odori, già molto simili, che salivano fumando dai grandi piatti di portata ancora mezzi pieni, che i camerieri avevano lasciato sui tavoli in nostra facoltà. Non ne approfittavamo, piuttosto guardavamo le varie gerarchie della nomenklatura, quelli più uguali degli altri li si riconosceva dalla centralità delle loro donne, che gogolianamente tenevano banco.
L’acme dell’odore c’era quando cominciavano le grida commosse della musica e del canto, amori fra guerre, foreste e fiumi, questo sembrava di capire dalle vocali prolungate all’impossibile, dai vezzi delle formose mani ingioiellate, dagli applausi a piena palma degli alti burocrati, qua e là intervallati da ufficiali di Stato Maggiore, gli unici realmente eleganti. Un odore forte, duro, con una sgradevolezza obbligata a cui non restava che obbedire. L’odore di un potere che veniva da lontano, destinato a durare ancora per due decenni.
Il mattino seguente, ad uno di noi sembrò di riconoscere dal pullman l’edificio della Università Lomonosov, ma durante la giornata in giro per Mosca ne vedemmo altri sette di edifici così, in scala diversa -dal grande all’immenso- ma tutti uguali, figli del medesimo progetto.
La sera a teatro, le coreografie di Igor Moisseev, formidabile incontro fra folklore e classicità, natura e politica. Ma avevamo cenato in un beriozka -ristorante per turisti- per godercele meglio.

Coreografia di Igor Moisseev

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