mercoledì 19 maggio 2010

L'originale e la sua copia

Gauss

Dopo la visita alla mostra di Roy Lichtenstein mi sono ritrovato a rimuginare, un po’ anche menando il can per l’aia, sul rapporto fra la copia e il suo originale. Cerco di mettere ordine.



In quello che viene considerato il suo manifesto surrealistico, Ceci n'est pas une pipe, Magritte raffigura con plastica veridicità e perfezione di dettaglio una pipa, però ci avverte, guardate che questa non è una pipa, è un’icona, un simulacro di pipa, non si può riempire di tabacco e tirar qualche boccata. Lo ha chiarito Magritte stesso: "Se avessi scritto sotto il mio quadro: «Questa è una pipa», avrei mentito". La sua copia di una pipa è l’espressione visibile di un concetto, non appartiene alla realtà tangibile, appartiene al mondo delle idee, insomma, puro logos. Una considerazione che vale per l’opera di Magritte come per qualunque altra opera d’arte, che anche la più iperrealista sempre astratta è.

Con la sua serie di Cadeau il dadaista Man Ray si spinge ulteriormente su questa linea di pensiero. Nemmeno propone una copia dell’oggetto che vuole rappresentare, lo espone così com’è, nella sua corporea concretezza. Estraniandolo però dall’ambito che gli è proprio e in tal modo privandolo della sua originale e funzionale natura, trasforma il suo ferro da stiro in un soggetto immateriale, di cui valgono solo le proprietà formali. Pur senza ricorrere alle parole di una didascalia anche Man Ray, come Magritte, esplicita il suo intendimento con una illuminante contraddizione. La fila di chiodi conficcati nella superficie piana del ferro da stiro è lì ammonirci: “Non azzardatevi a considerarmi un utensile domestico, sono una scultura, se non ci credete provate a usarmi come ferro da stiro, vedrete se stiro o se sbrego”. C’è del sadismo in questo alludere e deludere, affermare e negare.


Il concettuale Joseph Kosuth rende ancora più esplicita la relazione fra l’oggetto e la sua rappresentazione con la sua famosa opera One and three chairs, la sedia una e trina, una installazione nella quale accosta a una sedia una sua fotografia e l’ingrandimento della pagina di un dizionario che ne dà la definizione linguistica. Sono la stessa sostanza in tre diverse manifestazioni, la fisica sensibile, l’estetica visiva e la logica verbale, nessuna è l’originale e nessuna è la copia, un artista potrebbe indifferentemente ispirarsi a qualsivoglia delle tre, prendere spunto dalla sedia del bar su cui è solito prendere l’aperitivo, dall’immagine di una sedia sul catalogo che l’IKEA manda trimestralmente a sua moglie e anche, perché no, dalla descrizione della sedia che in un romanzo giallo sorprendentemente diventa la chiave per scoprire il colpevole. Le parole possono addirittura ispirare più delle immagini, quanti capolavori hanno tratto origine dal Genesi o dalla Divina Commedia?













Venendo a Lichtenstein, le sue fonti di ispirazione sono copie di copie, le riproduzioni delle opere di grandi autori sulle pubblicazioni d’arte di cui è attento studioso. La matrice letteraria del suo lavoro è palese, nei soggetti e nello stile. Prendiamo The red horseman. Stessa composizione, stessa moltiplicazione delle figure, stessa tavolozza cromatica del Cavaliere rosso di Carlo Carrà. Ma mentre la cavalcata sfrenata del futurista Carrà esalta la forza vitale dell’azione e del movimento, l’elegante galoppo di Lichtenstein sembra voler non tanto celebrare il movimento quanto omaggiare il futurismo. Se si accetta che l’arte, anche quando vuole rappresentare la realtà fisica e naturale, è per sua natura un’astrazione, quella di Lichtenstein, che prende a protagoniste le astratte idee-guida della cultura del suo tempo, è un’astrazione al quadrato. Non c’è ancora un ismo cui far riferimento per qualificare l’originale inconfondibile stile pittorico di Lichtenstein, ma volendolo trovare, iperastrattismo mi parrebbe appropriato.

Gauss

P. S.
Si parva licet, tempo fa ho dipinto una canestra di frutta. Sì, simile – Dio mi perdoni – a quella di Caravaggio. E’ andata così, una vicenda complicata.
Una catena di supermercati, se ricordo bene la UNES, promuoveva i suoi prodotti alimentari con le foto di composizioni di frutta che imitavano le nature morte di grandi pittori del passato. Ho copiato da uno di quei depliant pubblicitari, quindi la mia natura morta è la copia di una foto che ritrae un’imitazione dell’immagine di un dipinto che raffigura una natura morta. Sei passaggi in tutto. La tengo appesa in casa e agli amici cui la mostro per la prima volta, appena la collegano a Caravaggio, sono solito dire che ho rifatto la Canestra di frutta per eliminarne i difetti!





3 commenti:

ottavio ha detto...

Ehi, Gauss, la tua Canestra di frutta è quella di destra, vero?

Saluti. Ottavio

Gauss ha detto...

Ottavio, l'hai capito dall'assenza di difetti, vero?

Ciao

Gauss

Roby ha detto...

Quanto mi sono divertita! Quanto mi è garbato questo post ( e il suo post-scriptum illustrato)!!!

Andando un bel po' fuori tema, ricordo il mio stupore di liceale studiando che nell'antichità greca e romana la copia, il rifacimento, la ristesura di un'opera letteraria, scultorea o pittorica -se era fatta "bene"!!!- non era considerata nè un "falso" nè una violazione dei diritti d'autore...

....Però, Gauss, scusami: la "tua" natura è davvero trooooppo viva per essere "morta"!!!!

Ciaoooo!!!

Roby