mercoledì 7 aprile 2010

La misura del tempo

zena

A sacchetti riempiti, a cagne addestrate, a sogni infeltriti, a camicie orlate.
A mastelli ingrigiti, a fave sgranate, a vestiti imbastiti, a gattine figliate.


Il tempo in casamia si misurava così, con una filastrocca di gesti e sensi che lo tritavano a piacere.

La Dina mianonna lo pestava sull’asse, assieme al lardo, all’aglio e alla cipolla.
Il battere secco diceva la consistenza e la resa delle cose: era la pendola del risveglio della casa.
Accompagnava la mattina tonda, che non è l’alba e neppure il quasi mezzogiorno.
Quando la pistada diventava lenta e filosa, anche i bambini erano già lavati.

Nella stessa stanza la Iris miazia batteva il tempo con la macchina da cucire, per altro tedesca e segaligna. Sotto la cassa di legno il piede andava su e giù col pedale, mentre sul piano la mano correva avanti e indietro per spingere la stoffa verso il piedino dell’ago e ammucchiarla avanti.
Il tempo di sotto respirava e cigolava di fretta, il tempo di sopra si gonfiava in sbuffi di stoffa cucita, quasi gobbe cammellate percorse dai punti. Anche a catenella.

Nelle stanze da letto il tempo era sbattuto e sprimacciato dalla Rosa miamamma: strappato dai letti, messo alla finestra, fatto volare in forma di piuma dai cuscini, con colpetti che scandivano Luna tu sai tu dirmi il perché e liberavano i sogni della notte.

In sottofondo, il tempo diventava scattoso e rauco perché lo misuravano i gargarismi del grande vecchio, prima del caffè corretto con la Ferrochina Bisleri: almeno sei schiarite, quante ne consentiva il bicchiere. In bagno, dove certo era restata traccia del fischio sottile dell’altro uomo di casa, che fischiava solo alle soglie della giornata: alle prese con la barba del mattino e con il rientro della sera, dietro il vetro della porta.

Aveva brusio di sciame, il tempo, con le rime e le pause del fare.

Ora la mia misura è il rammendo: pieni e vuoti.
Rammendo le voci che mancano.
Stendo bene i lembi degli strappi, ché le carezze servano a qualcosa.
Chiedo ai fili di rafforzare il liso e gettarsi oltre il vuoto.
Coll’ago o con la pagina fermo quel che c’è.
E continuo la filastrocca.

A forme pensate, a racconti cuciti, a carni brasate, a ombrelli smarriti.
A leghe spianate, a vasetti bolliti, a speranze glassate, a steli fioriti.


(dedicato a Primo, con la promessa di non perdere neppure una parola e di continuare a lavorare di filo)

6 commenti:

zena ha detto...

caro Ottavio: mi spiace, non avevo visto che avevi già postato tu.
Scusami.
Cancella pure il mio pezzo: posso rimetterlo un'altra volta.
Grazie per aver risolto il problema dell'invito scaduto.
E scusami ancora per questa involontaria sovrapposizione.
zena

Roby ha detto...

Oggi sono felice come una PASQUA, anche se è il Mercoledì del Demonietto (?!). l post nuovo di Zena e quello di Ottavio... che bello! Ho aperto la finestra, ho guardato in su e ho detto: "EHI! HAI VISTO???"

[;->>>]

R.

ottavio ha detto...

Zena, non ci penso neppure!

L'ho letta e la leggerò ancora questa "misura del tempo". Tempo e spazio sono inesauribili fonti di riflessione. Ogni visione in merito è un contributo ulteriore.
saluti
Ottavio

Silvia ha detto...

E' meraviglioso. Primo ne sarebbe felice, soprattutto delle ultime tre righe.
Il rammendo è un'arte, mia mamma mi diceva sempre: quando una è brava a rammendare, non si conosce nemmeno se lo guardi da vicino.
Eppure ci sono strappi che pare impossibile ricucire. Non subito almeno. Occorre il tempo di cui parli, tanto tempo, anche se fili molto coraggiosi, si getterebbero subito nel vuoto per darci sollievo.
C'è un tempo per ogni cosa.
Con affetto.

Barbara Cerquetti ha detto...

Mi hai fatto ricordare la macchima per cucire che usava mia mamma quando ero piccola, col pedale a piede. Mi sembrava un oggetto magico.

mazapegul ha detto...

Cara Zena,
com'è diverso il tuo tempo dal mio! Passo tutto il giorno di corsa per cercare di fare tante cose, e alla fine mi sembra (m'accorgo) di non aver concluso nulla. Nel momento vuoto, a metà d'un conto in ufficio o d'un articolo del lavoro sfogliato frettolosamente in corriera, chiudo gli occhi alla ricerca di un nulla nero, totale e riposante.
Uo vuoto-fuga, non la pausa del pentagramma, come quella che così bene descrivi.
Maz