domenica 28 febbraio 2010

La lingua salvata

Ottavio

Amici e conoscenti che mi sentono parlare con i miei fratelli ci ascoltano sorpresi, piacevolmente sorpresi, perché capiscono che parliamo in dialetto, il che non è più tanto frequente, e perché questo dialetto è tanto antico quanto musicale.
E’ il dialetto del Basso Agordino, una delle valli di ingresso nelle Dolomiti, nel Bellunese. E’ un dialetto di derivazione ladina (siamo molto vicini alle aree ladine dell’Alto Adige), sia pure con mescolanze con il veneto di pianura (benché la valle di accesso all’ Agordino sia lunga e stretta, non ha scoraggiato gli emissari della Repubblica di Venezia, che venivano ad acquistare i tronchi dell’ottimo larice, che sarebbero diventati pali della laguna, con il codazzo di commercianti vari al seguito).
Lo abbiamo imparato negli anni della guerra quando mio padre decise prudentemente di sfollare al paese dei nonni per evitare pericoli per la numerosa famiglia (eravamo nove figli!). Dal 1943 al 1947 i grandi appresero il dialetto e lo affiancarono all’italiano come conoscenze linguistiche, i piccoli semplicemente sostituirono l’italiano col dialetto (con grande rammarico di mia madre, che sospirava “Parlaié cosita ben l’italian”).
E’ interessante notare che quando torniamo al paese qualcuno ci dice: “Ehi, te parla come me nona!”, perchè il nostro linguaggio è rimasto quello degli anni ’40, non si è evoluto rimanendo confinato tra le mura di casa. Al paese, passato da un’economia esclusivamente agro-pastorale ad una basata su turismo e fabbrica (occhialeria), il linguaggio ha subito la conseguente trasformazione.


Alla fine del 1947 ripartimmo dal paese (vedi cartolina) per raggiungere la sede di lavoro di mio padre, ma a quel punto la nostra lingua di casa era il dialetto, senza eccezioni. L’italiano era la lingua “esterna”. E così è ancora oggi, ma, ahimè, questa isola linguistica avrà la durata della nostra vita: i nostri figli, nati e cresciuti in città non hanno mai avuto lo stimolo per impararlo (e noi non abbiamo insistito troppo). Quando ci sentono parlare un pò ci capiscono, ma sempre con un’aria beffarda (come a dire: matusa anche nel linguaggio).
Quindi questa singolare esperienza alla fine sarà durata una sessantina o settantina d’anni.

Ebrei di Cordova

Leggo su La lingua salvata (appunto!) di Elias Canetti, che i discendenti degli Ebrei di Cordova, ai primi del ‘900 parlavano ancora spagnolo. Gli avi di Elias, dopo la cacciata dalla Spagna, seguita alla Reconquista dei califfati arabi da parte dei re cattolici, si erano rifugiati in Turchia e in seguito (a partire dal nonno di Elias) in Bulgaria. Nella città bulgara, un porto sul Danubio, dove Elias nacque, si parlavano sette lingue, ma la sua (prima) lingua madre fu lo spagnolo.
Se pensiamo che gli Ebrei spagnoli furono espulsi verso la fine del 1400 quell’isola linguistica è durata più di 400 anni!
Che dire?
Chapeau!

P.S. Qualche anno fa ho fatto il classico viaggio (turistico) attraverso l’Andalusia. Un argomento ricorrente da parte delle varie guide locali che si sono succedute nelle città visitate è stato quello dell’armonia e reciproca tolleranza che vigeva tra le diverse etnie-religioni musulmana-ebrea-cattolica sotto la “dominazione” araba. Mi è sembrato che gli Andalusi fossero piuttosto orgogliosi di quel passato. Come è noto dopo la Reconquista le cose cambiarono, ahimé, profondamente.
Sarebbe bene ogni tanto ricordarselo, oggi!

La fontana dei leoni nell'Alhambra di Granada

4 commenti:

Solimano ha detto...

Si capisce benissimo da questo post il motivo per cui, Giorgio, hai scelto il nickname di Ottavio: ottavo di nove figli. Mentre il mo nome di battesimo, Primo, a parte che era il nome del mio bisnonno, era frequente in Emilia e Romagna per ragioni strettamente proletarie: ho conosciuto un altro Primo, un Secondo, un Quarto, un Quinto basati sulla stessa abitudine campestre.

Se il dialetto di Voltago è simile al ladino, farei fatica a comprenderlo, almeno a voce: l'esperienza delle ferie in Val Gardena e di due anni di residenza ad Udine non ha schiodato il ladino e il furlano (che è una specie di ladino) verso la soglia della comprensibilità. Quando vi trovate, agli altri parenti sembrate probabilmente agenti segreti che fra loro parlano in codice per non essere spiati. Però il parmigiano lo so ancora parlare, mercé delle estati allo zuccherificio da studente: se parlavi in italiano gli operai non si fidavano: al perla in italian, col student là (parla in italiano, quello studente).

saluti Ottavio
Solimano

zena ha detto...

A me piacciono le 'parlate'.
Mi piace soprattutto la inflessione, la musica che si tengono dentro.
Non l'ho mai parlato il dialetto, anche se mio papà e mia mamma fra loro l'han sempre usato, con l'orgoglio di sentirlo diverso da quello del paese in cui viviamo.
(Bastano dieci km, da queste parti, per cambiare una u.)

Sempre, per altro, i miei mi hanno preso in giro quando ho tentato qualche exploit dialettale in proprio.

Trovo sia bello conservare un'impronta linguistica, così io mi tengo la mia zeta bassopadana, vagamente ronzante, e le mie vocali aperte e strascicate. Anche loro son da salvare:)
Un saluto.

ottavio ha detto...

A Voltago, paese dei miei nonni, è cambiato tutto, come dicevo. Il dialetto è uno dei pochi legami che ci restano con le nostre radici.
Quindi, giusto!, Zena, manteniamo, finché possiamo, la nostra "parlata".
Saluti
Ottavio

Roby ha detto...

Ho un cruccio grosso come una casa: quello di non essermi fatta insegnare da mia nonna e dalle mie zie un po' di dialetto sardo... mi sarebbe piaciuto tanto! Ma quando lo chiedevo alle interessate, da bambina, dicevano sempre di avere troppo da fare. Adesso "riposano" tutte: e per sempre.

Roby