Credo che Boris Pahor affronti, nella sua opera, una delle prove più difficili: chiedere alla scrittura di aderire alla realtà, misurandosi non con l’autobiografia e la cronaca di una esistenza comune, sotto traccia, ma con una porzione di storia pervasa dall’indicibile, dalla indicibilità del male senza limiti.
La scrittura di Pahor regge in modo possente questo urto e lo fa, dice Claudio Magris, assumendo uno sguardo ‘micrologico’: quello che in un raggio di sole sa leggere il pulviscolo e in una stanza buia sa individuare le sagome; è uno sguardo che sgrana l’intero, lo seziona con lucidità minuziosa senza perdere il disegno complessivo, servendosi delle ombre e delle luci.
In questa aderenza al reale e in questo sguardo stanno i fili che annodano le opere di Pahor e che rendono Una primavera difficile lo sviluppo quasi cronologico e naturale di Necropoli, l’opera forse più famosa e pluripremiata di Pahor, considerata uno dei capolavori universali della letteratura dello sterminio: se Necropoli è il viaggio dentro il mondo crematorio dove l’uomo vive la morte del corpo e del pensiero, l’annichilimento e la fossilizzazione, Una primavera difficile racconta invece il ritorno da quel mondo, un ritorno che assume i modi di una lenta, progressiva rigerminazione.
È il maggio 1945 e Radko Suban è reduce dai campi di concentramento nazisti, destinato ad un sanatorio nei pressi di Parigi perché guarisca dalla tubercolosi.
L’itinerario della guarigione in realtà si trasforma in un complesso riaddestramento alla vita, in una ri-motivazione alle sue ragioni, ai suoi modi, al suo stesso esercizio.
I primi giorni sono un diaframma ancora troppo sottile fra la pienezza dell’esistenza da realizzare e la vita di prima, così ossificata e pervasa dalla morte, per cui il lager ancora incombe e invade, richiamato ad ogni istante. Anzi tutto il passato, tutto l’ universo in esso contenuto diventano il “prisma” deformante attraverso il quale Radko si affaccia sull’esistente, una Parigi da addomesticare, cioè da condurre alla dimensione della abitabilità.
Fra l’uomo che ancora si sente un relitto emerso da un diluvio universale, che non sa a quale mondo appartiene e neppure a chi, che non vuole perdere la memoria ma nemmeno vivere restando immerso nella morte, fra questo uomo e le cose dell’esistenza c’è all’inizio una barriera trasparente, da incrinare, da ammorbidire con la pazienza del tempo, ovvero con l’indugio.
L’indugio è così diverso dalla velocità (dell’obbedienza) imposta dal lager, come tempo della paura. E’ una sorta di attesa, di pausa: “è come restare distesi sul caldo dorso di un mondo solitario e disabitato e attendere che succeda qualcosa”.
Tanto, la vita arriva. Con passo alterno e col suo “costante e ripetuto germogliare”…
Perchè la vita ha comunque un suo modo di accamparsi e di prendere possesso, di nutrirsi anche attraverso un medium inaridito, come fa la vegetazione che riavvolge le rovine: ha lunghi tentacoli, la vita, nastri di scorrimento per stimoli e impulsi di cui si nutre e sa nutrire.
Radko si risveglia.
I sensi, sollecitati, superano la distanza e favoriscono il contatto.
Tornano gli odori ( quello del tè caldo e mielato, quello del pane fresco), i sapori che ingolosiscono, i suoni che dicono vivezza, anche se soltanto si legano al battito dei cucchiai su un piatto, la musica all’inizio di un bosco…
Torna la sensazione di benessere tattile, che un lenzuolo bianco e pulito può finalmente comunicare; torna la pace del restare distesi in una calma senza agguati, così diversa dalla immobilità inerte eppure apprensiva del lager.
Torna la capacità di sciogliersi all’amore e con l’amore, grazie al corpo della donna che accoglie con la stessa naturalezza fluida del mare, un corpo da contemplare, da accarezzare. Arlette, la piccola infermiera dal cuore sognante, a volte reticente a volte svelata, bambina e antica come la terra, prenderà Radko letteralmente e simbolicamente per mano.
Una primavera difficile è, dunque, anche un romanzo d’amore, di una seconda iniziazione alla grammatica dei sentimenti, che non esclude né la paura né il senso di colpa, né il sospetto né la gelosia, né la memoria che guarda al passato, né l’incertezza che segna l’irresolutezza del presente, né il desiderio che chiede futuro. Accoglie il dolore ed anche la gioia sottile, che nasce dal sentire ancora la natura, perché l’interezza passa attraverso la declinazione onnilaterale di ogni fibra rinata.
E’ un romanzo di cui ringraziare.
La scrittura di Pahor regge in modo possente questo urto e lo fa, dice Claudio Magris, assumendo uno sguardo ‘micrologico’: quello che in un raggio di sole sa leggere il pulviscolo e in una stanza buia sa individuare le sagome; è uno sguardo che sgrana l’intero, lo seziona con lucidità minuziosa senza perdere il disegno complessivo, servendosi delle ombre e delle luci.
In questa aderenza al reale e in questo sguardo stanno i fili che annodano le opere di Pahor e che rendono Una primavera difficile lo sviluppo quasi cronologico e naturale di Necropoli, l’opera forse più famosa e pluripremiata di Pahor, considerata uno dei capolavori universali della letteratura dello sterminio: se Necropoli è il viaggio dentro il mondo crematorio dove l’uomo vive la morte del corpo e del pensiero, l’annichilimento e la fossilizzazione, Una primavera difficile racconta invece il ritorno da quel mondo, un ritorno che assume i modi di una lenta, progressiva rigerminazione.
È il maggio 1945 e Radko Suban è reduce dai campi di concentramento nazisti, destinato ad un sanatorio nei pressi di Parigi perché guarisca dalla tubercolosi.
L’itinerario della guarigione in realtà si trasforma in un complesso riaddestramento alla vita, in una ri-motivazione alle sue ragioni, ai suoi modi, al suo stesso esercizio.
I primi giorni sono un diaframma ancora troppo sottile fra la pienezza dell’esistenza da realizzare e la vita di prima, così ossificata e pervasa dalla morte, per cui il lager ancora incombe e invade, richiamato ad ogni istante. Anzi tutto il passato, tutto l’ universo in esso contenuto diventano il “prisma” deformante attraverso il quale Radko si affaccia sull’esistente, una Parigi da addomesticare, cioè da condurre alla dimensione della abitabilità.
Fra l’uomo che ancora si sente un relitto emerso da un diluvio universale, che non sa a quale mondo appartiene e neppure a chi, che non vuole perdere la memoria ma nemmeno vivere restando immerso nella morte, fra questo uomo e le cose dell’esistenza c’è all’inizio una barriera trasparente, da incrinare, da ammorbidire con la pazienza del tempo, ovvero con l’indugio.
L’indugio è così diverso dalla velocità (dell’obbedienza) imposta dal lager, come tempo della paura. E’ una sorta di attesa, di pausa: “è come restare distesi sul caldo dorso di un mondo solitario e disabitato e attendere che succeda qualcosa”.
Tanto, la vita arriva. Con passo alterno e col suo “costante e ripetuto germogliare”…
Perchè la vita ha comunque un suo modo di accamparsi e di prendere possesso, di nutrirsi anche attraverso un medium inaridito, come fa la vegetazione che riavvolge le rovine: ha lunghi tentacoli, la vita, nastri di scorrimento per stimoli e impulsi di cui si nutre e sa nutrire.
Radko si risveglia.
I sensi, sollecitati, superano la distanza e favoriscono il contatto.
Tornano gli odori ( quello del tè caldo e mielato, quello del pane fresco), i sapori che ingolosiscono, i suoni che dicono vivezza, anche se soltanto si legano al battito dei cucchiai su un piatto, la musica all’inizio di un bosco…
Torna la sensazione di benessere tattile, che un lenzuolo bianco e pulito può finalmente comunicare; torna la pace del restare distesi in una calma senza agguati, così diversa dalla immobilità inerte eppure apprensiva del lager.
Torna la capacità di sciogliersi all’amore e con l’amore, grazie al corpo della donna che accoglie con la stessa naturalezza fluida del mare, un corpo da contemplare, da accarezzare. Arlette, la piccola infermiera dal cuore sognante, a volte reticente a volte svelata, bambina e antica come la terra, prenderà Radko letteralmente e simbolicamente per mano.
Una primavera difficile è, dunque, anche un romanzo d’amore, di una seconda iniziazione alla grammatica dei sentimenti, che non esclude né la paura né il senso di colpa, né il sospetto né la gelosia, né la memoria che guarda al passato, né l’incertezza che segna l’irresolutezza del presente, né il desiderio che chiede futuro. Accoglie il dolore ed anche la gioia sottile, che nasce dal sentire ancora la natura, perché l’interezza passa attraverso la declinazione onnilaterale di ogni fibra rinata.
E’ un romanzo di cui ringraziare.
8 commenti:
(mammamia, che cosa lunga è diventata! sorry)
Per niente. Mi sono commossa, non vedo l'ora di leggerlo. Grazie.
Non è lungo, è intenso. Bisogna leggerli davvero questo libri, se non basta una volta, tante altre fino a quando non capiremo che a fare del male ci si mette proprio poco. Un gesto dopo l'altro senza riflessione si può davvero passare sopra alle persone come fossero cose. Il problema è che bisogna andare oltre... e capire oggi cosa dobbiamo fare perchè non accada mai più. Il problema è che accadono cose anche oggi e nel nostro paese di fronte a cui ci sentiamo impotenti. Ed allora mi viene da chiedermi: era così anche a quel tempo?
Sono tante le domande che mi pongo oggi dopo aver ascoltato tante testimonianze da far rabbrividire. Certo non ci sono i campi di concentramento, ma non possiamo fermarci a questo.
Scusa lo sfogo. La parola commozione vorrebbe dire "muoverci con" ed invece io mi sento tanto "ferma" anche se giro come una trottola
Un abbraccio e grazie
Zena, leggendo la tua presentazione, così scavata e approfondita, eppure limpida, aperta in tante direzioni, in fondo più congruenti che contradittorie, mi è venuto in mente l'inizio de The Waste Land di Eliot (la prima parte è titolata The Burial of the Dead); è del 1922 e il mese è Aprile, non Maggio, c'è la stessa dolorosa ma necessaria riconquista dell'amore per la vita. Un amore comandato dalla natura, un accettare di essere vivi malgrado tutto:
April is the cruellest month, breeding
Lilacs out of the dead land, mixing
Memory and desire, stirring
Dull roots with spring rain.
Winter kept us warm, covering
Earth in forgetful snow, feeding
A little life with dried tubers.
...
What are the roots that clutch, what branches grow
Out of this stony rubbish? Son of man,
You cannot say, or guess, for you know only
A heap of broken images, where the sun beats,
And the dead tree gives no shelter, the cricket no relief,
And the dry stone no sound of water.
Aprile è il più crudele dei mesi, genera
Lillà da terra morta, confondendo
Memoria e desiderio, risvegliando
Le radici sopite con la pioggia della primavera.
L'inverno ci mantenne al caldo, ottuse
Con immemore neve la terra, nutrì
Con secchi tuberi una vita misera.
...
Quali sono le radici che s'afferrano, quali i rami che crescono
Da queste macerie di pietra? Figlio dell'uomo,
Tu non puoi dire, né immaginare, perché conosci soltanto
Un cumulo d'immagini infrante, dove batte il sole,
E l'albero morto non dà riparo, nessun conforto lo stridere del grillo,
L'arida pietra nessun suono d'acque.
E il ricordo della lettura de La tregua di Primo Levi, un libro terribile eppure anche felicemente picaresco, malgrado tutto.
E infine, credo che dovremmo avere il coraggio di tornare e capire meglio i grandissimi artisti che segnarono il primo Novecento: oltre a Eliot, Stravinskij e Picasso. Perché con la prima guerra mondiale non abbiamo fatto i conti del tutto. La sua sciocchissima terribilità segnò il crollo della felicità e cella centralità europea, e che fu all'origine delle altre grandi tragedie. Altro che inutile strage!
E artisti forti quindi profetici, come Eliot, Stravinskij, Picasso dettero delle risposte che sono attualissime.
Boris Pahor è quasi testimone temporale di quella capacità di visione diretta delle rovine, una visione cruda senza infingimenti. Proprio questo rende possibile la rigerminazione che Pahor sperimenta di prima persona nel suo esistere, che significa soprattutto ascoltare la sua quotidiana corporeità.
grazie Zena e saluti
Solimano
Infatti. Mi incanta la caparbietà della vita che, senza infingimenti, non cede alla desertificazione, allo scempio che ne viene fatto.
Grazie Silvia, Giulia, Solimano: mi è piaciuto condividere il pezzetto di un'esperienza e di un incontro con una persona che, davvero, tocca a grandi profondità e lascia il senso di una riconoscenza infinita.
(Solimano anche tu, con l'aprile crudele di Eliot e i suoi lillà che fioriscono quasi lividi fra macerie di pietra e terra morta, vai dritto al cuore, a snidare sentimenti e affetti)
E' un testo 'colonna' fondante di una vita e del suo 'doloroso amore'.
Ciao
Mi ha scritto oggi Matteo Zadra (ufficio stampa dell'editore Zandonai) per ringraziare in particolare Zena "per la sua lettura profonda e coinvolgente di Una primavera difficile" e per dirmi che linkerà il blog nella pagina di Boris Pahor del sito Zandonai editore.
Che dire? Ne sono contento... sò disfazioni!
grazie Zena e saluti
Solimano
Ma che piacere :)
Sono così contenta dell'attenzione rivolta a Pahor: dobbiamo chiedergli scusa per tanti anni di silenzio.
Io trovo bellissima l'edizione di Zandonai e grande la cura con cui sta accompagnando questo volume.
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