lunedì 3 agosto 2009

Taccuino di viaggio: Venice, Louisiana

mazapegul

Perché Venice, Louisiana, si chiamasse così lo si intuiva dalla mappa stradale: un paese al fondo d'una penisola acquitrinosa, nel mezzo del delta del Mississippi, non troppo lontano da New Orleans. In assenza di idee migliori per la giornata, ispirati da niente più che il nome, partimmo per vedere che aspetto avesse questa Venezia del Sud, mangiare in qualche trattoria tipica (gumbo? jambalaya?) e tornare in tempo per sentire la nostra cantante preferita, accompagnata dal pianista-lupo di mare.
La nostra stima della distanza si mostrò errata, così come quella dell'ora del tramonto. Più di tutto, si mostrò errata la nostra stima di Venice: arrivammo a buio fatto in un informe agglomerato di case mobili, quelle del proletariato ruspante, che non può o non vuole andare nei projects di case popolari; con in vista solo i fuochi di una raffineria e, soprattutto, neanche un posto aperto. Non un ristorante, non un bar, neanche una pompa di benzina con scaffale di snacks e bibite. Complice il buio, il paese ci apparve squallido e inospitale, oltre che disabitato.
Gira che ti rigira, trovammo un bar aperto, con alcuni vecchi furgoncini a pianale parcheggiati davanti. Ci consultammo tra noi prima di entrare: non sarà questo il profondo Sud dove gli stranieri vengono ammazzati per l'accento sbagliato; quello che ci era stato pronosticato dalla cameriera delle eggs n' brains?
Spinti dalla fame, decidemmo alla fine di entrare. Non appena aperta la porta, vedemmo che nel locale chiaccheravano allegramente una mezza dozzina di uomini, l'oste e una ragazza vestita di jeans e truccata come un'abat-jour d'epoca. Al nostro inggresso, s'ammutolirono e si voltarono a scrutarci con attenzione, senza farsi nessuno scrupolo d'essere indiscreti. Ci fermammo di colpo, poi Luis fece un passo in avanti, e avanzammo insieme verso il bacone.
"Cosa volete?" chiese il barista senza accennare a un minimo di sorriso.
"Birra?!," provai timidamente.
"Quale birra?" La voce dell'oste si faceva impaziente, mentre gli uomini del locale ci guardavano ostilmente.
"Michelob," buttai lì, dicendo la prima marca popolare che mi venne in mente.
"Non abbiamo Michelob."
'Merda, ho sbagliato: dovevo dire la Bush, che ce l'hanno di sicuro.' Per un attimo pensai che ci avrebbero sparato col pretesto di aver ordinato una birra da fighetti. Guardai con un timido sorriso la ragazza: se ci avesse preso in simpatia, magari li avrebbe convinti a risparmiarci.
"Bush, allora." Luis, uno spagnolo piccolo, ma con più esperienza mondana del matematico medio, stava cercando di stabilire un contatto con gli indigeni.
L'oste, deluso per aver perso l'occasione buona per spararci, stappò tre bottiglie di Bush e ce le portò al tavolo, sotto l'occhio attento e ostile degli altri avventori.
"Da dove venite?"
"Da St. Louis," rispondiamo noi in coro, contenti di poter dire che non eravamo turisti sperduti sulla via di Disneyland.
L'oste tirò fuori la parlata del Sud più marcata che avessi mai sentito, strascicando le vocali con un movimento mascellare simile a quello degli alligatori:
"Ho incontrato in vita mia mo-olta gente di St. Louis, e ne-e-essuno con un accento come quello."
Guardai Luis e Cristobal: 'addio, amici miei: è colpa mia se siamo venuti a morire in questo fetido buco di palude. Addio anche te, misteriosa cantante di blues: non ci sarà modo di conoscerti meglio,' pensai con un'acuta nostalgia di New Orleans.

Le cose andarono però diversamente. Confessando all'oste di essere europei del Sud, stuzzicammo la curiosità sua e dei clienti. S'avvicinò prima la ragazza, un pò perché eravamo il diversivo della serata, ma forse anche per vedere se poteva racimolare qualche soldo passando una notte con uno degli stranieri. Poi vennero gli altri, che -saltò fuori- erano tutti pescatori. L'oste prese i tranci di pizza rimasti dalla festicciola, un pescatore che compiva gli anni proprio quella sera. Solo alla fine ci chiese se volevamo qualcosa da mangiare dal bar.
"No, grazie, ci siamo rimpinzati di pizza."
"Dannazione, ho scazzato. Dovevo darvi la roba a pagamento prima della pizza gratis, e non dopo."
Passammo alcune ore in allegria, tra gli sguardi languidi della ragazza, tenuta a bada da quelli assai gelosi dei pescatori; informandoci sui pescherecci, fornendo importanti notizie sull'Europa ("No, in Italia non c'è il re"). Quando lasciammo il locale per far rientro a New Orleans, lo facemmo quasi malvolentieri.

4 commenti:

zena ha detto...

'No, in Italia non c'è il re...'
Come cambiano velocemente le umane sorti poco progressive:)))

Maz, mi piace troppo il tuo modo di raccontare i luoghi: li fai 'sentire'.

saluti&saluti

mazapegul ha detto...

Grazie Zena. Cerco di essere veritiero non solo nei fatti, ma anche nella sensazione di stupore che mi ha preso in alcuni luoghi visitati durante la mia vita. Non ho molto viaggiato, in compenso mi stupisco facilmente.
Adesso parto per due settimane di cavanze con la famiglia. Al ritorno vorrei metter giù per iscritto pagine del mio taccuino mentale non necessariamente americane (anche se negli USA la conoscenza della lingua contribuiva alla comprensione -quindi scriverne è più facile; ma era conoscenza imperfetta, ciò che contribuiva allo stupore).
Ciao,
Maz

annarita ha detto...

Belli bell questi racconti dal profondo Sud, l'America rurale dei romanzi di grande respiro attraverso la penna e la memoria di un matematico che scrive deliziose storielle per bambini. Ce ne fossero di tipi come te! Ti teniamo ben stretto, qui nelle stanze :-))
Salutissimi e buone vacanze, Annarita

Solimano ha detto...

Lapsus grandioso, Màz: cavanze! Ma è giusto così, i turisti fanno le vacanze, salvo gli archeologi ed i matematici (scavatori di pala e scavatori di mente) che fanno le cavanze.
Hai fatto il terzo film: dopo "Ceneri di un amore", drammone tardoromantico, "Bourbon Steet", stile ragtime, adesso "The King of Venice". Bisognerà aggiornare i libri di storia, però, cosa dirà il Consiglio dei Dieci? Occhio alla fine che ha fatto Marin Faliero.

saludos
Solimano