sabato 25 aprile 2009

Angiolettismo (2)

mazapegul

La scuola del tempo che fu era funestata dal disinteresse che la gran parte dei genitori ostentava per il funzionamento dell'istituzione e per ciò che i propri figli vi stavano facendo. "Se anche quest'anno ti bocciano, dopo le doverose botte vai a lavorare" (detto dal genitore); "Mario, sei proprio ignorante come tuo cugino Piero" (detto da maestra). Questo disinteresse ha contribuito a produrre un paese meno istruito (anche perché meno interessato all'istruzione) di quanto avrebbe dovuto essere. Poi sono venuti i riformisti e hanno detto che, come nel resto del mondo sviluppato, le famiglie, anche quelle poco istruite, devono occuparsi dell'educazione dei figli e delle scuole in cui i figli studiano.
Per uno di quei misunderstanding di cui la storia del riformismo italiano è pieno, il messaggio è stato letto in una forma ipersemplificata. Più o meno: "tuo figlio non è la canaglia che i tuoi pensavano fossi tu, ma un angioletto". Nasce così la curiosa teoria -che contraddice ogni genuina memoria di sè- che i (propri) bambini siano angioli. Non, insomma, che siano cuccioli d'uomo, quindi portatori di diritti tutti particolari e dotati di caratteristiche loro proprie (non mini-adulti, insomma), ma proprio angioletti.
Ciò che non cambia, passando dal canaglismo all'angiolettismo, è l'idea proprietaria: mio figlio è un mio avere, e solo in quanto tale è dotato di (assoluto) valore. [Prima era: mio figlio è mio, e ne faccio qiò che voglio io]. Ciò, ovviamente, non si applica ai figli degli altri, che non hanno un gran valore, né -ovviamente- particolari virtù angeliche. L'angiolettismo, infatti, non riesce a concepire un bene di comunità, ma solo la salvezza del singolo angelo.
Così, se i volontari che accompagnano i nostri bambini sullo scuolabus si lamentano che i bambini sono troppo chiassosi e ne va della sicurezza, i genitori -invece di dire ai figli che gli anziani accompagnatori vanno ubbiditi non meno dei nonni- lamentano a loro volta che i volontari non sono abbastanza "professionali" (sic!) e che bisognerebbe cambiarli. Se i bambini soffrono, come tutti i bambini della storia, a imparare le tabelline, i genitori si precipitano a chiedere alle maestre quali metodi utilizzare per farle imparare senza angosce ("bisogna fargliele ripetere", rispondono esse serafiche, con grande insoddisfazione di mamme e papà).
Si arriva così all'ultima assemblea di classe. La maestra presenta sorridente questa bella notizia: una famiglia del paese ha adottato una bambina ispanica, che dall'anno prossimo frequenterà la classe dei nostri figli. La reazione di alcune mamme è però inaspettata. "Come, una bambina STRANIERA con i nostri bambini?! Questo rallenterà l'apprendimento!" Dopo attenta ponderazione arriva la proposta: "per il bene dei nostri angioletti, la straniera andrebbe affiancata da un'insegnante di sostegno."
La storia finisce (per ora) bene. La maestra, che è una professionista e che ha del buon senso, s'è rifiutata nella maniera più assoluta di chiamare un sostegno per una bambina che, da quel che se ne sa, è sanissima e abile allo studio.

4 commenti:

annarita ha detto...

Ho lavorato nella scuola come insegnante precaria un lustro fa e vi ho fatto ritorno di nuovo una decina di anni fa, stavolta in ufficio. I contatti con gli insegnanti di ogni ordine e grado non sono mancati e devo ammettere con grande dispiacere che la differenza è macroscopica. In molti, troppi casi, si è passati dalla giusta considerazione per l'esperienza e per i giudizi dei docenti a una insensata colpevolizzazione dei medesimi, come se fossero l'unica causa dei problemi didattici, e non solo, dei loro studenti. Mi domando che razza di adulto sarà domani un alunno che oggi veda il genitore o la genitrice dare torto apertamente all'insegnante o minimizzare il proprio comportamento maleducato e offensivo nei confronti del suddetto. È davvero triste. Salutissimi, Annarita.

Anonimo ha detto...

La scuola è un gran pezzo della mia vita e davvero ho lavorato molto volentieri e con grande soddisfazione. Avrei molto da dire, ma magari lo farò un po' per volta. Sono in linea di massima d'accordo con te. Ma quello su cui mi soffermo è che oggi manca il senso della comunità (se è mai esistito). Ognuno pensa al suo "angioletto" e la colpa è sempre degli altri. E' molto più facile (almeno per me lo è stato sicuramente) non aspettarmi l'aiuto dei genitori e lavorare con i ragazzi che capivano più in fretta e meglio il messaggio che volevo lanciarli: poi si discuteva, si litigava anche, ma si trovava sempre un accordo a metà strada. Devo dire che a volte avevano, ad ascoltarli e capirli, delle loro buone ragioni per non essere d'accordo con me. Ma questo l'ho detto nel post precedente.

Solimano ha detto...

Una delle più belle storie zen è questa:

AH SI'?

Il maestro di Zen Hakuin era decantato dai vicini per la purezza della sua vita.
Accanto a lui abitava una bella ragazza giapponese, i cui genitori avevano un negozio di alimentari. Un giorno, come un fulmine a ciel sereno, i genitori scoprirono che era incinta.
La cosa mandò i genitori su tutte le furie. La ragazza non voleva confessare chi fosse l'uomo, ma quando non ne poté più di tutte quelle insistenze, finì col dire che era stato Hakuin.
I genitori furibondi andarono dal maestro. "Ah sì? " disse lui come tutta risposta.
Quando il bambino nacque, lo portarono da Hakuin. Ormai lui aveva perso la reputazione, cosa che lo lasciava indifferente, ma si occupò del bambino con grande sollecitudine. Si procurava dai vicini il latte e tutto quello che occorreva al piccolo.
Dopo un anno la ragazza madre non resistette più. Disse ai genitori la verità: il vero padre del bambino era un giovanotto che lavorava al mercato del pesce.
La madre e il padre della ragazza andarono subito da Hakuin a chiedergli perdono, a fargli tutte le loro scuse e a riprendersi il bambino.
Hakuin non fece obiezioni. Nel cedere il bambino, tutto quello che disse fu: "Ah sì?".
E' certamente un'utopia, però rovesciata rispetto alle nostre.
Ha un grande pregio: fa capire che disattaccamento e distacco non sono sinonimi, difatti infastidisce molti cristiani, che basano tutta la pratica di vita sull'attaccamento.

Con lo psicoterapeuta da cui andavo all'inizio della depressione, ogni tanto facevamo un break e chiacchieravamo mettendoci in gioco tutti e due. Insegnava filosofia alle superiori e il mondo dei ragazzi lo conosceva bene. Mi disse: "Sa qual è l'unica cosa di cui si preoccupano oggi molti genitori? Che il figlio vada bene a scuola a prescindere da quello che c'è a monte di quell'andar bene. L'importante per loro è quello che ci sarà a valle, quindi, costruire un pedigree, non un sistema di valori".
Aggiunse che il peggio, nei ragazzi, non è impasticcarsi in discoteca, ma starsene per ore a ciondolare insieme, ad esempio, nei parcheggi dei supermercati. Ci ho badato (la Lombardia è piena di supermercati ed ipermercati con parcheggi vastissimi) stanno lì senza fare niente, così, per passare il tempo, come certi pensionati.
L'abbandono scolastico in Brianza, zona fra le più ricche d'Italia, é molto alto. Il cardinal Martini ci vedeva il nesso col lavorismo imperante... ma c'è anche l'atteggiamento di sufficienza quasi sprezzante che c'è verso la scuola, non come istituzione, ma come insegnanti-persone.

grazie Màz e saludos
Solimano

mazapegul ha detto...

Annarita e Giulia, l'angiolettismo è la maschera poetica e privata del "clientismo"; quell'ideologia mercatista per cui il mondo si divide in domanda e offerta, commercianti e clienti. E' mia opinione che alcuni servizi essenziali, e lo spazio pubblico in generale, non possano essere concepiti così. Secondo l'ideologia mercatista-angiolettista la scuola è un servizio "alla carta", fatto di rapporti tra le singole famiglie e gli insegnanti; rapporti improntati alla trattativa privata sulla "prestazione".
I ragazzi e i bambini, che a scuola ci vivono, sanno benissimo (più o meno consapevolmente) che non è così, e per questo è più facile dialogare con loro (e ammettere i propri errori, che fanno parte del mestiere d'educatore, e che contribuiscono essi stessi alla crescita di una comunità educativa). L'idea di una comunità che cresce insieme, o non cresce neanche individualmente, è diventata quasi indicibile. Anche se, devo dire, il nostro dirigente scolastico e gran parte degli insegnanti ci credono ancora.

Solimano: grazie per aver ricordato il bellissimo aneddoto zen e per averlo così ben sintetizzato: si può (e deve) essere disattaccati, senza per questo essere distaccati. Quel maestro zen dev'essere stato un gran bel padre.

Av salud,
Maz