venerdì 13 febbraio 2009

Il disagio ben temperato

Solimano

Sovente leggo e rileggo me stesso e le persone che ho conosciuto in rete, anche scritti pubblicati diverso tempo fa. Preferisco che ci si sia visti almeno una volta: per me una persona virtuale esiste solo se in essa sento la persona reale, col suo viso, le sue particolarità, il suo sguardo, la sua versatilità d'umore soprattutto.
Così mi faccio una mutevole idea delle singole persone (me compreso) che sono diverse l'una dall'altra, eppure da tempo trovo un denominatore comune: il disagio ben temperato.
E' impossibile scrivere se non siamo noi ad oggettivare il disagio, ma se è lui ad oggettivare noi. Se non ci disidentifichiamo dal nostro disagio non siamo in grado di vederlo. Sono situazioni che purtroppo si verificano, nel caso di malattie ma non solo: se il disagio siamo noi, non solo non si riesce a scrivere, non si riesce neppure ad esprimersi. Situazioni in cui l'arma non è la ribellione o la rassegnazione, ma solo l'accettazione, che prima o poi scioglie il disagio anche se non l'annulla.
E allora ci troviamo ad essere molecole che contengono atomi con valenze insature, e lo scrivere è un naturale appagamento.
Non c'è l'antinomia agio/disagio, esiste invece la possibilità di convivere in modo fecondo col proprio disagio. La grande strada è quella di trasformare la ferita (inevitabile) in feritoia (possibile). Dalla feritoia si può avere uno sguardo non abitudinario sulla realtà, si può stabilire un rapporto di attenta curiosità con gli altri.
Sembra un discorso pessimistico, vuole essere un discorso di realtà. Se nel disagio continuiamo a lanciare avanti il cuscino d'aria delle aspettative, non riusciremo mai a nuotare liberamente: faremo solo una gran fatica, ed arrivati vicino al cuscino d'aria non ci resterà che buttarlo ancora avanti, continuando a faticare inutilmente.
Il narcisismo e la curiosità ci aiutano, sono il segno che la feritoia si è aperta: difficile essere narcisi o curiosi quando siamo del tutto identificati col nostro disagio, allora si è solo agitati ed insofferenti, incapaci di comunicare, e lo sappiamo.
Poi capitano dei momenti, delle ore, dei giorni interi in cui tutto va a posto, probabilmente perché siamo riusciti a creare in noi una specie di vuoto che chiede solo di essere riempito. Ecco, in quei momenti lunghi o brevi, ricordiamo che il disagio è sempre lì, appostato nella ruvida realtà della cantina o della soffitta e che prima o poi entrerà in casa, da ospite però, non da padrone.

P.S. Le immagini. A fianco il giovane che scrive una lettera (1662-65) di Gabriel Metsu. Sotto, un particolare del ragazzo che scrive (1920) di Norman Rockwell.




12 commenti:

annarita ha detto...

Curioso. Leggendo il tuo post, mi sono resa conto di aver scritto molto proprio nei momenti in cui era il disagio ad oggettivare me. Forse è stata una specie di inconscia reazione, una forma di resistenza passiva che mi ha aiutata a ribaltare i termini della questione. Mi hai dato molto su cui riflettere.
Salutissimi, Annarita.

giulia ha detto...

Spesso sono a disagio... I motivi sono tanti e sempre diversi.Sono un'inquieta. Ma a volte è il disagio a dominarmi ed allora cado nell'immobilismo. Poi lascio che pian piano si sedimenti e lo guardo in faccia, cerco di capire da dove viene e che cosa contiene. Ecco che allora diventa, come dici tu "una feritoria", una ferita sì, ma da cui vedo qualcosa che prima non avevo visto e la mia comprensione di me stessa e degli altri ne risulta arricchita. In quei momenti si riesce a scrivere, ma anche nell'altra situazione può far bene... così a ruota libera. A volte scrivere ti fa "uscir fuori".
Sono anche io dell'idea che bisognerebbe almeno una volta conoscersi, vedersi, guardarsi negli occhi per continuare questo dialogo virtuale. E credo, però, di più ai piccoli incontri, non a quando ci sono i raduni dei blogger da cui fuggo perchè appunto mi sento molto a disagio, di quel diagio che mi blocca...

Anonimo ha detto...

Io non sono mai uguale da una volta all'altra nelle faccende della mia vita, anche perchè le faccende stesse sono molto diverse tra loro. Mi lascio vivere e mi ascolto molto mentre metto un passo avanti all'altro. E' l'unico modo che conosco per stare bene con me stessa.
Ci sono momenti in cui l'impegno prevalente è cercare i pezzi che ho perso e a volte quelli che trovo capisco che non servono più e ne devo cercare altri ma pare che non sappia dove cominciare. Mi sento perduta, ma non mi do per vinta. Adesso è un momento così. A volte mi diventa complicato accendere anche un fiammifero, ma il buio non lo temo, perchè in certi casi è più rassicurante del vuoto che cela. Sono mutevole, instabile, spesso inquieta, a tratti allegra,quasi felice e sento che ancora sono lontana da ciò che potrei e vorrei essere. Di cosa sarà domani non ne ho la più pallida idea. Intanto mi accontento del così, perchè non posso forzare più di quanto non faccia ogni giorno in cui sento che ho perso per sempre qualcosa d'importante e di unico.
Sottrarmi è la cosa più naturale quando sento che non sono in grado di dare e sono inadeguata perfino a me stessa. Allora non serve nulla, nemmeno scrivere, nemmeno parlare, anche per giorni. Ma poi passa. Sono lampi, a volte è solo un'infinita tristezza che nel mio caso ritengo comprensibile. Non ci vivo sopra, nemmeno dentro ma lei mi assale all'improvviso e rende vana ogni mia ribellione. Gestirla a volte è molto difficile. Si va per tentativi.

Guardarsi negli occhi è meglio, ma io scrivo queste cose che i miei colleghi che vedo ogni giorno nemmeno immaginano anche se sono persone molto carine.
E non è il video che protegge, anzi, io sono una persona che ritiene il contatto fisico determinante, ma c'è un discorso di affinità, di affetto e comprensione che io qui avverto, più che altrove. Questo basta e avanza per me, ora.
Intanto siamo a febbraio e va bene così. Confido nel tempo che passa che pare faccia miracoli, quelli per cui io non sono attrezzata.

Solimano ha detto...

Annarita, succede, quello che dici tu. Perché anche nei giorni in cui siamo più oggettivati dal disagio, al limite schiacciati, vengono quei dieci minuti, quella mezz'ora, in cui alziamo la testa e siamo provvisoriamente liberati. Magari è proprio in queste ricreazioni che scriviamo le nostre cose migliori, almeno quelle a cui teniamo di più. Può darsi che sia un gioco biologico di endorfine, il nostro cervello (che non è un mistero) è molto complesso e in gran parte non conosciuto.
Giulia guai a chi non è mai a disagio. Non per il disagio in sé ma perchè vive nell'astuccio delle abitudini, non ha questo gusto (non utopico) del confine, della esplorazione.
Poi è verissimo che dalla ferita mutata in feritoia finisce che conosciamo meglio noi stessi. Il che ha tanti vantaggi, uno in particolare: che smettiamo di crearci da soli le cause del disagio. Perché questo succede, questo abbiamo fatto, ed aveva ragione Paul Watzlawick con le sue "Istruzioni per rendersi infelici".
Riguardo le riunioni di blogger, mi viene da ridere e da scappare, proprio come te, ma trovarsi in una decina di persone che abitualmente conversano fra loro in rete è tutta un'altra cosa, se nasce senza forzature e non con la sindrome dei compagni di liceo che si ritrovano. Oddio! Ci son capitato una volta e mi è bastato.
Silvia, quella della differenza fra le persone con cui siamo in contatto ogni giorno nella vita reale e quelle con cui il contatto è virtuale, è un bell'argomento, soprattutto per un motivo: ognuno di noi ha più copioni a disposizione e se li gioca naturalmente a secondo dell'habitat. Non è che menta, recita semplicemente in commedie diverse. Ecco, riuscire a stabilire un nesso, una osmosi fra le due commedie, i due copioni secondo me è un bell'obiettivo. Perché? Perché fra vita reale e vita virtuale si può innescare un circolo virtuoso, migliorano tutte e due. Un risultato minoritario ma possibile, perchè spesso la vita virtuale è una compensazione di una vita reale insoddisfacente. Basta leggere in giro, prima o poi si fanno scoprire.
Io non faccio gerarchie fra le due, mi piace che siano parenti però anche differenti.

grazie e saludos
Solimano
P.S. Creo che sappiate tutti che il nesso ferita/feritoia l'ha utilizzato Sebastiano Timpanaro nei suoi splendidi studi su Giacomo Leopardi.

Anonimo ha detto...

Sono d'accordo Solimano, in considerazione del fatto che nella vita reale spesso non puoi scegliere chi frequentare, nella vita virtuale sì.

Ho sempre cercato la qualità nelle relazioni, la "quantità" non mi è mai appartenuta anche da ragazzina in cui si cerca di piacere a tutti. Non sono una persona abituata a frequentazioni spicciole e frettolose, anzi sono molto selettiva, però la quasi totalità dei presenti su questo blog li incontrerei di persona anche domani mattina e senza patemi. Di fondo, credo di conoscerli già un po', quel po' sufficiente per cancellare la mia innata diffidenza. Negli oltre dieci anni di frequentazione in rete, ho conosciuto diverse persone, tra loro, alcune sono diventate molto importanti nella mia vita. Per cui concordo sul circolo virtuoso. La mia vita alla fine della fiera è una sola. Come decido di spenderla e con chi fa la differenza. Il resto sono i mezzi che decido di utilizzare. La rete mi pare ottima, purchè non ne diventi schiava.

Buon San Valentino a tutti:)

Anonimo ha detto...

Comincio col confessare che del discorso ferita/feritoia non sapevo nulla, e non mi mette a disagio acclararlo.
Ecco, per me il disagio, specialmente culturale, è una spinta a cercare di migliorarmi in qualche modo.
Del resto sentirsi inadatto è un po' mia caratteristica peculiare, anche quando in realtà non ce ne sarebbe bisogno.
Ciao.

Habanera ha detto...

Il disagio può essere causato dai sensi di colpa, ed è il disagio peggiore, o dipendere da circostanze esterne che non abbiamo il potere di cambiare.
Io non ho ricette particolari per superarlo, se non quello di guardarmi attentamente dentro per capirne la ragioni.
Se mi rendo conto di avere sbagliato io, cerco in ogni modo di rimediare.
Se invece hanno sbagliato gli altri con me, se la cosa non dipende in alcun modo dalla mia volontà, cerco di attrezzarmi per non subirne troppo le conseguenze.
In questo caso è molto utile sfogarsi con le persone di cui ci fidiamo e del cui affetto siamo sicuri. Il fardello diventa subito più leggero.
H.

Roby ha detto...

Oltre al discorso ferita-feritoia, davvero intrigante (ma che non ricordavo affatto), è stato il post di Habanera a colpirmi. Lei fa la differenza fra "QUANDO SBAGLIO IO" E "QUANDO SBAGLIANO GLI ALTRI CON ME". Ebbene, a me capita sempre ed esclusivamente di pensare che l'ERRORE sia solo mio, il che dà inevitabilmente inizio ad un circolo vizioso di sensi di colpa, di macerazioni e di rimuginamenti estremi... un incubo! Sono irrecuperabile? Chissà...

Sbaciotti

Roby

Habanera ha detto...

Roby, la differenza c'è. A patto di essere molto leali con se stessi, ancora prima di esserlo con gli altri.
Certo, se uno pensa di avere sempre ragione, non tenendo in alcun conto le ragioni degli altri, alla lunga finisce per avere torto.
Ma anche chi crede di essere sempre in torto finisce, stranamente, per esserlo davvero.
Quando invece si è veramente in pace con la propria coscienza, quando si è sicuri di non aver mentito a se stessi (esercizio molto più comune di quanto si creda) tutto diventa improvvisamente facile.
Una strada in discesa e senza ostacoli.
H.

Solimano ha detto...

Una cosa, per chiarire. La parola disagio, almeno per me, non è sinonimo di tristezza, malinconia, nostalgia e altre meta-sofferenze che appestano la vita reale e la rete. Roba falsa in quanto autoprodotta per tanti motivi tutti disdicevoli.
Disagio sta per sofferenza vera, motivata dalla realtà di malattie, rapporti con persone, eventi, difficoltà economiche. Roba non autoprodotta e che ha l'onestà di esseci, di essere un fatto e non un meta-fatto, che è solo un pensiero di fatto. E col disagio vero bisogna farci i conti, poche storie, anche nello scrivere.
Analogamente mi dà fastidio il maledettismo da quattro soldi che impesta analogamente la vita reale e la rete. Utopista, anarchista, velleitario, anomico, sostanzialmente nullafacente. Per fare il Rimbaud bisogna essere Rimbaud. Futuristi col voglino da accademici. Il loro tipo di disagio è del tutto farlocco e serve solo a tirarsela un po' con la loro scrittura al 50% furba al 50% cattiva. Però è anche bello che esistano, perché a visitare certi blog la sensazione di umorismo del tutto involontario è assai gradevole, in questa valle di lacrime (e di risate, diciamola tutta).

grazie e saludos
Solimano

Anonimo ha detto...

Disagio: non saprei se quello che chiamo disagio non sia un meta-disagio e del resto non posso vivere come mi consigliano spesso "senza rifletterci troppo". Il disagio nasce dall'accorgersi che esiste e non credo ci sia un'oggettività nel classificarlo. Se si fa finta che non esiste, allora non esiste (questo non impedisce agli altri di vederlo, il nostro, tuttavia).

Questo post mi ronza attorno come un'ape testarda cosi' come un'altra frase che ho letto in un post di Flounder " Scherzavo l’altro giorno con mia madre sul fatto che siamo donne di scienza e non di fede, tranquillizzate unicamente dalla conoscenza, quand’anche diventi portatrice di ulteriore dolore. Siamo quelle dell’enciclopedia medica, della verità brutale, della derisione verso la speranza."

La presa di coscienza di chi siamo in quanto uomini non puo' che rattristare, non depreimere (per quanto...) ma rattristare, questo si'.

Quando io sono il mio disagio e non posso guardarlo poiché siamo una cosa sola, allora non riesco a fare nient'altro che aspettare domani.
Non mi sento pessimista, mi sento realista.

un saluto affettuoso,

Solimano ha detto...

A me questa esperienza del tutto temporanea di essere uomo, però piace, e non perché è l'unica a disposizione, piace proprio. Ti do notizie buone/cattive, fai tu: speranza, come disperazione e nostalgia sono trappole che ci costruiamo con furberia ingenua. Hanno il solo tornaconto di sfuggire al momento che stiamo vivendo, brutto o cattivo che sia, però impegnativo e da guardare in faccia.
Mettendola su un piano culturale, non ci decidiamo a chiudere i conti con l'Idealismo ed il Romanticismo e con la lunghissima coda degli epigoni, Marx e Freud compresi. Non ti dice niente che dal punto di vista artistico quasi nessuno ha un gusto educato ad apprezzare il Veronese, Rubens, Hals, Hogarth, Fragonard e il Tiepolo?. Mentre Rembrandt, Vermeer, Friedrich, quelli vanno bene. Che si metterebbero a ridere a sentire le motivazioni di certi adoratori: la Ronda di notte di Rembrandt si svolge in pieno giorno, ma quasi nessuno lo sa.
E troppe cattive letture, prova a guardarti in giro negli Anobii, dimmi quanti libri di Darwin, Lorenz, Monod, Bateson, Laborit ci trovi. Non succede per caso, fortunatamente quell'arte considerata volgare che è il cinema i paassi li sta facendo, li ha già fatti, è più avanti. Salvo i cinefili dalla pelle verdolina che fanno come mio padre quando lo portarono la prima volta al cinema: guardava il buco da cui usciva il fascio di luce e non quello che succedeva sul lenzuolo.
Un'altra volta facciamo quattro risate sui millanta poeti finti che si credono veri (che è un'aggravante).

enjoy your life in Paris, Sabrina!
Solimano