sabato 29 novembre 2008

Una laurea da bidella

Roby

Malgrado la mia inutilissima laurea in lettere, per due anni ho avuto la fortuna di lavorare come collaboratrice scolastica (leggi: bidella) in una piccola scuola dell'infanzia nel cuore del centro storico, all'interno di un vecchio, magico palazzo circondato da un giardino incantato. Bambini deliziosamente pestiferi, colleghe insopportabilmente lagnose e pavimenti da lavare mattina e sera: una faticaccia!! Le quattro insegnanti, però, erano fantastiche: affiatate, fantasiose, instancabili, allegre... Tempo una settimana, e mi avevano adottato come vice-maestra, usandomi per dar loro una mano nella preparazione di feste di compleanno, decorazioni di carta per l'albero di Natale, pannelli colorati per Carnevale e via dicendo. Al contrario di quanto si usa nelle scuole, lì non ho mai indossato il classico grembiule azzurro da custode. Le maestre ed io eravamo -per gran parte delle ore di servizio- praticamente indistinguibili: jeans, maglietta colorata, pennarelli in mano e bambini vocianti tutt'intorno.
Una mattina, arriva una supplente "nuova", giovane e carina, e subito comincia a chiacchierare con me -che l'accolgo sulla porta- dandomi del tu senza problemi e raccontandomi com'è felice dell'insperato incarico, e come spera possa durare a lungo, per aumentare il suo punteggio e trovare finalmente un posto fisso. "E tu" mi chiede alla fine, cordiale "dove hai insegnato, prima di qua?". Altrettanto amichevolmente, rispondo che no, non sono una maestra: io lì sono la custode. Immediato, vedo il gelo nel suo sguardo. Istintivamente sembra quasi ritrarsi, e la sua voglia di chiacchierare svanisce all'istante. "Scusa" dice, con un sorriso forzato "adesso devo andare dalle insegnanti". E su quell'ultima parola calca, forse inconsapevolmente, il tono.
Cara fugace supplente di qualche anno fa, tu lo sai cosa significa "insegnante"? E' un semplice participio presente, che vuol dire "colui o colei che insegna". Non è un titolo onorifico (ammesso che ciò valga ancora, oggigiorno) nè un attestato di merito. E in quella scuola, posso garantirtelo, collaboravamo tutte (bidelle, maestre e cuoche) a far sì che i bambini imparassero ogni giorno qualcosa di più: mentre tu, scusami se te lo dico, prima di laurearti in umanità avevi (hai ancora?) da studiare parecchio.



7 commenti:

Anonimo ha detto...

Le persone migliori che ho conosciuto in vita mia, erano le più umili. Senza ricorre a San Francesco, coloro che sanno trattare con chiunque mettendolo a proprio agio è perchè hanno gli strumenti per farlo, culturali e umani, ma soprattutto sanno che da chiunque c'è qualcosa da imparare.
Sì questa doveva percorrere ancora molta strada. E già insegnava purtroppo.

mazapegul ha detto...

Cara Roby,
quella giovane supplente avrà pensato certo di aver fatto una gaffe che avrebbe poi diminuito il suo status presso le colleghe. Da quello che dici, alle colleghe sarebbe importato un piffero, così è stata sgarbata per nulla.
Ma non è questo il peggio. La giovine supplente s'è persa l'occasione d'imparare un pò d'egittologia, di sapere qualcosa sul tuo professore-Indiana Jones, di sapere cosa si prova a stare nel deserto a scavare e cercare...
Spesso le persone aride si sono fatte il loro deserto da sole, estirpando ogni piantina selvatica in vista, nell'illusione che così facendo avrebbero scovato un qualche ordinato giardino all'italiana, che invece non era da nessuna parte.
Ciao,
Màz
PS Aneddoto paterno. Un giorno la professoressa del classico volle vedere i genitori di mio padre al colloquio di fine semestre. I nonni erano contadini antichi e semianalfabeti. Mio padre, in attesa che il nonno andasse col calesse, la pesante giacca e il cappellaccio al liceo di Ravenna, moriva dall'ansia e dalla vergogna.
Il giorno dopo il colloquio, la professoressa disse a mio padre: "che persona interessante, tuo babbo," e prese a trattarlo persino con più simpatia.

Giuliano ha detto...

Ci sono i luoghi comuni, e poi ci sono le persone. Spesso è difficile sbarazzarsi dei luoghi comuni, ma ci si può provare.
(anche se, va detto, ci sono persone che negli stereotipi ci sembrano nate).
(ti rimando al mio "Ci pensa Carmine" su da Habanera...)

Anonimo ha detto...

Hai messo il dito sulla piaga... Se cercassimo non tanto le persone che sfoggiano titoli, ma che dimostrassero competenze, forse il mondo andrebbe davvero meglio, Giulia

Roby ha detto...

Cari tutti, forse sono stata un po' troppo melodrammatica nella mia esposizione del fatto. Ma... il fatto è che ci rimasi male DAVVERO!!!!

Per restare nell'ambito dell'apprendimento e delle sue fonti, i bambini, in quei due anni da bidella mi insegnarono moltisssssimo. E di questo non smetterò mai di ringraziarli, piccoli adorabili pestiferi puffetti!!!!

Roby

Solimano ha detto...

Va però detto che la stronzaggine non conosce confini, come la peste bubbonica nel 1630 (o era il 1628? non ricordo bene...): a chi la tocca la tocca. E quindi bidelli e professori, analfabeti ed alfabeti, diplomati, laureati, semi-laureati (che oggi vanno di moda con la laurea triennale), uomini e donne, ragazze e ragazzi, sono tutti esposti al pernicioso contagio, ed i corni del dilemma sono due: culturaggine o ignorantaggine? Però chi non conosce l'esperienza della manualità ha perso qualcosa, esattamente come chi, di purissima razza brianzola, sostiene che i libri fanno male alla salute.
Ma la tua collega giovane insegnante va perdonata: mettiti nei suoi panni, Roby, può essere un errore più di ignoranza che di cattiveria. Mi sono trovato di fronte a chi spacciava lauree inesistenti o farlocche e ti assicuro che non è bella gente. Per fortuna noi giravamo senza titoli di studio nei biglietti da visita: nonme cognome e ditta. Stop. In queste robe gli italiani sono ancora borbonici, gli americani no.

saludos
Solimano

Anonimo ha detto...

Solo le bidelle sanno non portare le calze neppure col freddo e sedere in corridoio con le gambe stiracchiate con la spontaneità di un eden in cui non si sa di essere nudi e non ci si vergogna.