domenica 30 novembre 2008

Spendere e spandere

Giuliano

Mi serviva una valigia, di quelle col carrellino; così sono andato in un grande negozio specializzato e ho cominciato a rovistare. Trovata quella che mi andava bene, l’ho aperta e ho guardato come era fatta dentro; nell’aprirla mi è capitata davanti l’etichetta, “Made in China”. Erano tutte made in China, ma proprio tutte. Non facciamo più neanche le valigie, in Italia.
Era un’ottima valigia, costava poco e sono molto contento del mio acquisto; ma va detto che comperare qualcosa di “Made in Italy” sta diventando veramente un’impresa.
Quest’episodio della valigia, che risale al settembre scorso, mi è tornato imperiosamente alla memoria quando ho visto in tv il ministro Tremonti, con il volto serio e severo delle grandi occasioni, invitare gli italiani a spendere, perché così il PIL può tornare a salire; se non si spende, l’economia va a remengo. E dunque l’economia del Paese è nelle mie mani: vado e spendo. Ma la mia maglietta (ottima, anche dopo molti lavaggi è ancora come nuova) è fabbricata in Thailandia, la felpa viene dal Marocco, lo stereo viene dalla Malaysia, e una grande fabbrica storica qui vicino ha appena chiuso per trasferire la produzione nell’ex Cecoslovacchia, non ricordo dove. Dalla Cina arrivano persino i pomodori, sotto forma di passata e di pelati (ma sull’etichetta non lo scrivono), il grano duro per la spaghettata è quasi tutto canadese, le famose industrie venete sono andate quasi tutte in Romania. Insomma, ammesso che gli italiani abbiano i soldi per spendere, ne trarrà certamente beneficio il PIL: ma non il nostro, quello del Marocco, della Thailandia, della Repubblica Ceca, della Malaysia. E un po’ anche quello della Cina, ma cosa volete che sia la mia valigia nuova per un colosso come la Cina.
PS: Vuoi vedere che anche le tesserine della Social Card le fabbricano in Cina?


7 commenti:

Roby ha detto...

Mi viene in mente che la pubblicità, ultimamente, sottolinea con particolare enfasi la merce prodotta interamente in Italia, appunto perchè rarissima: ad esempio, una marca di poltrone reclinabili (Global-qualchecosa) e poi le patate (quelle al selenio, mi pare).

Saporitissimo post, Giuliano, benchè di gusto dolceamaro!

Roby

Giuliano ha detto...

Il bello è che il selenio è un veleno, ogni tanto bisognerebbe dirlo. In dosi infinitesimali serve al nostro organismo, così come altri elementi (anche l'arsenico), ma appunto infinitesimali, roba da medici specialisti. Che gli si faccia pubblicità e lo si scriva in grosso sulle etichette è una delle tante xxxxxxxx che ci tocca subire.

Anonimo ha detto...

Questa trovata di Tremonti è appunto di Tremonti... e hai ragione anch'io notavo come nulla fosse ormai fabbricato in Italia... Un caro saluto, Giulia

mazapegul ha detto...

Quando ero studente negli USA c'erano due cose che mi stupivano: che tutto ciò che compravo fosse Made in China ("ma non producono niente, questi qui?"), il debito commerciale che conviveva allegramente con tassi di crescita che noi in Italia ci sognavamo. A me pareva un sistema malsano, anche se di economia ci capivo (e ci capisco) poco. In Italia, più o meno in quegli anni, in tanti dicevano che dovevamo fare come gli USA (e io mi chiedevo, ma se tutti i paesi volessero avere un deficit commerciale, da dove si prenderebbero i manufatti: dal pianeta Venere?). Grande sponsor del sistema americano fu Tremonti, che voleva rendere facile l'ipoteca della casa a fini di consumo; solo tre o quattro anni fa.
I meccanismi del sistema americano li abbiamo in parte imparati con la crisi, in parte avevo imparato a conoscerli negli anni precedenti: un paese in cui tutto si basa sul credito facile, che fa crescere sì il deficit, ma anche l'industria biotecnologica, quella dei server, e via andando. E per anni si guarda solo alla parte dinamica e progressiva del fenomeno, finchè non scoppia la bolla, che ne è la faccia statica e regressiva (debiti da cui non ci si riesce a liberare, e che crescono, crescono...).
Anche noi abbiamo preso questo andazzo, sia pur in maniera più prudente. Hai fatto benissimo, Giuliano, a metterlo in rilievo con concretissimi esempi.
(Anche negli USA si faceva un gran sfoggio di bambdierine sui prodotti Made in USA, per giustificarne il prezzo irragionevole rispetto a quelli della concorrenza cinese).
Màz

Giuliano ha detto...

Mio padre, ormai trent'anni fa, ha lavorato gli ultimi anni della sua vita in una fabbrica a conduzione familiare che faceva piccoli oggetti stampati: dai pulsanti per le macchine fino alle statuine per l'albero di Natale, tutta roba che oggi fanno in Cina o in Corea.
E qui nel comasco ho visto chiudere a decine i piccoli terzisti che lavoravano la seta: una volta si comperava la seta grezza e la si lavorava qui, oggi Como è sempre il Distretto della Seta ma le fabbriche non ci sono più, arriva tutto dalla Cina: ed è logico che sia così, la seta si produce in Cina, mica in Italia (una volta la si produceva anche qui, ma oggi non esiste più la seta italiana).

Di queste cose non si parla mai, caro Maz. Eppure è questo il nodo della questione...

Solimano ha detto...

Occhio che il passaggio dal mondo dei prodotti a quello dei servizi ha la stessa giustezza del passaggio dalla pastorizia all'agricoltura, dall'agricoltura alla industra pesante, dall'industra pesante all'industria leggera.
La pastorizia, l'agricoltura, l'industria pesante, l'industria leggera esistono ancora ed esisteranno sempre, ma in un certo senso passano in second'ordine nei paesi più evoluti. E comunque il servizio (che ha in sé un aspetto di immaterialità) è ben presente in tutte le fasi. Non bisogna confondere il servicing col financing, sono due cose diverse anche se permeabili. Sono invece preoccupato di un'altra cosa: l'incapacità italiana a svolgere attività ad alto valore aggiunto (che hanno in sé una componente servicing molto alta). Questo è il vero grande problema, perché nel non avere una ditta produttrice di automobili o nel non avere una compagnia aerea di bandiera vedo più vantaggi che svantaggi, ma nel non saper produrre innovazione prodotto/servizio vuol dire che noi siamo tagliati fuori. Gli americani hanno i loro problemi ma ci salteranno furi perché credono alla struttura ricerca/scienza/tecnologia noi no, perché facciamo finta di crederci e non premiamo la competizione di merito ma a quella di cordate.
Nelle forze armate statunitensi ormai tutti quelli che entrano sono immigrati; esattamente come succedeva al tempo dell'impero romano, in cui gli eserciti divennero di barbari al servizio dell'impero, che poi presentarono il conto. Però, il barbaro Obama è alla Casa Bianca...
Non credo più alla mano invisibile del mercato, ma alla giustezza storica di alcuni fenomeni ci credo.

saludos
Solimano

Giuliano ha detto...

Quando faccio questi discorsi faccio solo un conto dei posti di lavoro che si sono persi e che non torneranno. La fabbrichetta dove lavorava mio papà, 10-15 stipendi in meno; la fabbrica di termostati, 200-300; la stamperia di tessuti, 100-150.
Moltiplicata per tutta l'industriosa Brianza (e Lombardia), fa un bel problema in termini di ordine pubblico per il prossimo futuro.
Perchè finché la gente ha una casa e può mantenere i figli starà quieta, ma senza stipendio non è detto che duri la quiete. E' questo che mi preoccupa, e molto.