mercoledì 11 giugno 2008

20. Baguette

L’idea era semplice: starcene il mese d’agosto a Parigi dormendo presso gli zii di uno di noi tre che abitava nel quartiere di Passy, e girare tutto il giorno per la città fermandoci a mangiare dove capitava.
Ma non andò così, dopo una settimana ci mettemmo d’accordo con gli zii per mangiare a mezzogiorno da loro. Tornavamo infatti troppo tardi la sera, quasi sempre dopo mezzanotte, e a meno di vent’anni la mattina si sta volentieri a letto, tanto valeva arrivare a mezzogiorno, pranzare e poi immergerci in Parigi il pomeriggio e la sera. Così bighellonavamo tutte le mattine per un’ora e mezzo in Passy, e non fu tempo perso, tutt’altro.
Conoscemmo Parigi come se non fossimo turisti, perché il quartiere anche d’agosto era popolato dai suoi abitanti, mentre a pochi chilometri di distanza, nel centro di Parigi, era tutto diverso. I quartieri cambiano nel tempo: oggi Passy è considerato un posto esclusivo, allora era piuttosto popolare.
Notai soprattutto tre cose.
Le mansarde, che erano la regola. Mansarde da Mansart, architetto del ‘600, non mansarde come le intendiamo oggi, quei sopralzi non sai se eleganti o solo snob, comunque molto costosi. Tutti i palazzi si concludevano in mansarde, come i salmi in gloria. Una impressione di decoro, di ordine, di bene abitare.
Poi, i ruscelli d’acqua che percorrevano ad ore fisse tutte le strade, nell’incavo fra la strada e il marciapiede: acqua corrente che puliva, trascinando ciò che trovava verso le fogne.
Infine, e soprattutto, le baguette. Non quei bastoncelli di pane piuttosto secco e lunghi una ventina di centimetri, che oggi ce li hanno tutti i supermercati e che sono fatti con pasta surgelata. Erano invece veri e propri bastoni di pane lunghi anche più di sessanta centimetri, alcuni arrivavano quasi al metro, e di mattina tutti giravano con le baguette appena comprate, fresche di forno.
Ho sempre patito, per il pane, fuori dall’Emilia. Troppa era la differenza che trovavo rispetto al pane di Bologna e di Parma. Con la baguette di Parigi non fu così, dai negozi si sprigionava in strada l’odore di pane fresco appena sfornato, non solo, ogni passante lo replicava quando ci incontravamo, ciascuno con la sua propria personale baguette, una specie di allegra arma per duelli gastronomici.
Così ci sentimmo rapidamente anche noi un po’ del posto, gran bella cosa. Lo notammo una sera, visitando l’esposizione temporanea dei capolavori di Edouard Manet non ricordo dove, forse all’Orangerie. L’esposizione non era inserita negli itinerari delle comitive turistiche e ci trovammo a visitarla con molti -non tantissimi- che turisti non erano. Eravamo diventati parigini fra i parigini, a forza di bighellonare la mattina, e ce lo ricordammo.
Di tutti i luoghi dove sono stato dopo, ho cercato sempre di avere una esperienza come se fossi dei loro, persino in Russia, e fu dura, perché non conoscevano le lingue, ed il mio greco antico non era a volte sufficiente a decifrare il cirillico delle stazioni metrò. Si torna a casa con meno foto, avendo saltato qualche museo, ma il significato, la storia -esagero, ma non tanto- del posto dove sei stato poi te lo ricordi, è un posto a cui appartieni anche tu.

La baguette di Madame Tourvel (Meg Tilly)
nel film Valmont (1989) di Milos Forman

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