Mio padre adorava il ciclismo.
Intendiamoci, non lo praticava (mai praticato nessuno sport, che io sappia), ma poteva restare per ore a seguirlo in tv, sciroppandosi anche tutta l'infinita appendice di premiazione del vincitore, processi alla tappa, interviste e controinterviste varie.
Intendiamoci, non lo praticava (mai praticato nessuno sport, che io sappia), ma poteva restare per ore a seguirlo in tv, sciroppandosi anche tutta l'infinita appendice di premiazione del vincitore, processi alla tappa, interviste e controinterviste varie.
Persino nella fase finale della sua lunga esistenza, quando ormai le facoltà cerebrali lo avevano quasi del tutto abbandonato, se sul televisore comparivano le immagini del Giro d'Italia, del Tour de France o della Milano-Sanremo nei suoi occhi velati si accendeva qualcosa: una debole luce, un barlume di gioia, un guizzo di coscienza, che lo portava a indicare lo schermo, ad accennare un sorriso, a sforzarsi di articolare poche parole sempre uguali:
"Guarda che curva... Madonna che salita... Accidenti che volata..."
Seduta accanto a lui sul vecchio divano del salotto, rispondevo con preoccupata dolcezza a quei suoni, a quei gesti, augurandomi che il collegamento col Giro o col Tour durasse il più possibile, per garantirgli ancora un po' di serenità, strappandolo all'ansia all'agitazione all'aggressività della demenza senile nei suoi momenti più bui...
"Guarda che curva... Madonna che salita... Accidenti che volata..."
Seduta accanto a lui sul vecchio divano del salotto, rispondevo con preoccupata dolcezza a quei suoni, a quei gesti, augurandomi che il collegamento col Giro o col Tour durasse il più possibile, per garantirgli ancora un po' di serenità, strappandolo all'ansia all'agitazione all'aggressività della demenza senile nei suoi momenti più bui...
E contemporaneamente mi chiedevo che gusto ci fosse a guardare un gruppo di ragazzi in bicicletta sfrecciare in massa su stradoni di campagna, inerpicarsi su pendenze del 49%, rompersi l'osso del collo in scivolose volate sul bagnato: specie se neanche si riusciva a distinguerli, tutti uguali com'erano, con gli stessi caschetti di protezione, gli stessi occhialini neri, gli stessi costumini rosa fuxia o giallo canarino. Lo spettacolo mi innervosiva o -nella migliore delle ipotesi- mi annoiava, e basta.
Ma la storia è fatta di corsi e ricorsi. E la vita, si sa, è una ruota. La bici, poi, di ruote ne ha due, belle tonde. Così (lo confesso qui apertamente per la prima volta) se ora facendo zapping col telecomando càpito sulla telecronaca della tappa odierna non solo non cambio canale ma mi fermo, mi accomodo meglio in poltrona e guardo. Osservo rapita, affascinata, conquistata da quei raggi lucenti che girano vorticosi, dalla costanza di quei muscoli che premono sui pedali, da quel serpentone a tinte fluo da cui -ogni tanto- si staccano fulminei due tre quattro coraggiosi isolati. Indugio sulle facce della gente assiepata ai lati della strada, quasi sempre allegra, rubiconda, festante. Partecipo col fiato sospeso all'incurvarsi incredibile del mezzo, al suo sgusciare tra gli altri senza danno, alla lenta fatica dell'ascesa e alla velocità inebriante dell'improvvisa discesa.
Mentre dentro di me -o forse accanto?- una voce mai dimenticata ripete, malferma ma felice, la ben nota, rassicurante cantilena:
"Guarda che curva... Madonna che salita... Accidenti che volata..."
Mentre dentro di me -o forse accanto?- una voce mai dimenticata ripete, malferma ma felice, la ben nota, rassicurante cantilena:
"Guarda che curva... Madonna che salita... Accidenti che volata..."
5 commenti:
Caspita, Roby, hai una capacità di risvegliare ricordi ormai sepolti in chissà quale meandro cerebrale...
Sul padre e sul ciclismo. Ricorderete che negli anni '50 al Giro d'Italia oltre alla maglia rosa c'era anche quella nera, appannaggio dell'ultimo in classifica, e c'era un ciclista che spesso la indossava, il mitico Malabrocca.
Bene, quando mio padre tornava stanco la sera dal lavoro in miniera, al tempo del Giro chiedeva sempre a noi ragazzi chi era la maglia nera. Quando gli rispondevamo "Malabrocca" era tutto contento.
Grazie, Roby, e Saluti
Ottavio
Certo, Ottavio, un cognome come Malabrocca ha già di per sè un che di jellato...
Il lavoro in miniera: quella sì che doveva essere una fatica immane... Ma l'accoglienza di voi ragazzi, rincasando, era sicuramente un toccasana per il corpo e per lo spirito!
Una volata di abbracci
Roby
Ricordando Primo
"...e fino a quando credi che continueremo il nostro cammino assieme?"
Egli aveva la risposta pronta da quarantacinque anni, tre mesi e sette giorni notti comprese.
"Per tutta la vita" disse.
Neria
Ad un primo momento di rabbia, in cui ci si sente abbandonati e traditi, segue la consapevolezza che non si è soli mai, che ci accompagnano sempre, che ogni azione, ogni pensiero, ogni parola porta una sintesi del loro essere stati con noi. Questo non ce lo porterà mai via nessuno.
Proprio così: per tutta la vita. E credo anche oltre.
Care Neria e Silvia, per tutta la vita e oltre, sì: sono perfettamente d'accordo.
Mio padre e mia madre, partiti per sempre 4 anni fa, l'una a pochi mesi dall'altro, oggi sono QUI con me come -e forse più- di quando lo erano fisicamente. Ma metabolizzare la loro mancanza, pur confusi e consumati com'erano, è stata dura: figuriamoci quindi quando a mancare improvvisamente è qualcuno ancora "giovane" e "vivo"!!!
Uno, anzi due abbracci
Roby
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