Roby Verba volant, scripta manent. O ancora, carta canta. E se si vuol esser sicuri di qualcosa è meglio -come si diceva almeno fino a poco tempo fa- farselo mettere per iscritto... adesso, forse, bisognerebbe aggiungere: su file, CD o DVD.
Da circa 15 anni ho la fortuna di lavorare presso l’Archivio storico del Comune di Firenze, in un palazzo settecentesco che già di per sè meriterebbe lo sforzo di alzarsi presto al mattino per raggiungere la propria scrivania. Scrivania sulla quale, dal 1997 ad oggi, hanno lasciato traccia della loro polvere centinaia di documenti, databili fra il 1782 ed il 1968, appartenenti ai vari fondi custoditi nella penombra dei depositi ai piani superiori.
Chi ha detto che il lavoro d’archivio è noioso, monotono, ripetitivo, inutile? Niente di più falso. Quel che segue è la perfetta smentita ad affermazioni tanto gratuite quanto inesatte.
Oceano Atlantico, al largo di Terranova, 14 aprile 1912: il transatlantico Titanic, pomposamente definito unsinkable (inaffondabile), entra in collisione con un gigantesco iceberg che ne squarcia profondamente la fiancata. All’inizio, il comandante non realizza chiaramente la portata dell’incidente (caso, questo, destinato a ripetersi in epoca molto più recente), ma presto risulta evidente, oltre all’imminenza dell’affondamento, anche l’assoluta inadeguatezza del numero di scialuppe disponibili in proporzione ai passeggeri. Panico, ordini contraddittori, eroismo e vigliaccheria si mescolano convulsamente nello spazio di poche ore: fino a quando, all’alba del 15 aprile 1912, il Titanic si spezza in due tronconi e s’inabissa, trascinando con sè il tragico carico di più di mille vite umane.
Film, libri, romanzi ed oggi anche numerosi siti internet hanno scandagliato a fondo -insieme al relitto- la vicenda, la dinamica degli eventi, la storia della nave e dei suoi passeggeri. Tra questi, ci dicono le liste originali, erano presenti una quarantina di italiani, per lo più imbarcati tra l’equipaggio di bordo: giovani emigranti ventenni, pochi spiccioli in tasca e in cuore tanta speranza per un futuro migliore da costruire al di là dell’oceano, nel Nuovo Mondo.
Pochissimi, tra i nostri connazionali, viaggiavano con la qualifica di passeggero: e proprio uno di questi è riemerso dalle onde del passato sul mio tavolo, attraverso le pagine ingiallite di un fascicolo della serie Affari sfogati dal sindaco datato 1913. Tra aprile e maggio di quell’anno si dipana la corrispondenza fra il Ministero della Marina mercantile, il Consolato italiano a Londra e il primo cittadino di Firenze, marchese Filippo Corsini, al quale si richiedono gli esatti dati anagrafici di un italiano perito nel più celebre naufragio della storia. Il nome è Mangiavacchi Emilio (anche se in quasi tutte le liste passeggeri risulta inspiegabilmente registrato come Serafino Emilio), figlio –pare- di Pasquale, nato –forse- a Firenze, di cui necessitano le esatte generalità e l’ultimo domicilio della famiglia, probabilmente residente nel capoluogo toscano: ci sono obblighi da espletare, comunicazioni da inviare, pratiche da sfogare, insomma, per chiudere definitivamente quello che in termini archivistici è l’affare lettera A, n. reg. 1261, anno 1913.
E’ appena trascorsa la Festa dell’Assunta quando Emilio Giovanni Andrea Mangiavacchi nasce a Bibbiena, il 16 agosto 1864: viene battezzato il giorno stesso nella chiesa di S. Ippolito, ancora addobbata per la recente solennità, sotto lo sguardo fiero del padre Federico, di stanza in città nella sua qualità di pretore. La famiglia, benestante se non agiata, garantisce al giovane un’accurata educazione tradizionale, pianificando forse per lui una carriera in linea con quella paterna. Ma in Emilio il richiamo dell’avventura, fuori dai confini della terra d’origine, si fa presto prepotente. Forse per predisposizione naturale, forse per contatti con amici o parenti già in loco, la sua scelta cade sul Sudamerica: nel 1890 lo troviamo in Cile, intento a compilare con entusiasmo la richiesta di ammissione alla Cuarta Compañía de Bomberos (pompieri) di Concepción: “desiderando far parte come volontario di questa compagnia e ritenendo di avere i requisiti necessari, chiedo che questa mia domanda sia presentata al consiglio di disciplina”. Il lavoro ottenuto nel frattempo presso le Ferrovie dello Stato cilene deve certo lasciargli spazio sufficiente ad onorare un impegno di notevole peso sociale, da lui svolto fino al 1902, data della sua ultima firma nel registro di presenza dei vigili del fuoco. Contemporaneamente si perfeziona nella lingua locale, lo spagnolo, e coltiva l’interesse per argomenti di carattere scientifico: un binomio che si rivelerà utile quando tradurrà per il quotidiano El Sur il testo della conferenza La telegrafia senza fili , tenuta a Roma da Gugliemo Marconi in occasione della sessione solenne dell’Associazione elettrotecnica italiana del 7 maggio 1903. L’esperienza cilena di Emilio, a questo punto, è giunta al termine, ma del paese andino egli conserverà per sempre indelebili ricordi, oltre ad un suggestivo album fotografico (Vistas in Chile) che più tardi finirà addirittura in possesso degli Archivi Alinari.
Alla fine del 1903 una sorta di appuntamento col destino riporta temporaneamente il nostro eroe in patria, a Firenze. Proprio qui, nell’autunno dello stesso anno, da Sovicille è arrivata Nella, ventiquattro anni pieni di vita, capelli neri raccolti in morbida crocchia e occhi di fuoco. Uno scambio di sguardi, una parola, e tra loro è subito passione travolgente: contro tutte le convenzioni, contro tutti i tabù dell’epoca, il 20 settembre 1904 Nella si reca di persona al cospetto dell’ufficiale di Stato civile per denunciare orgogliosamente di aver partorito un figlio, nato “dalla sua unione naturale con un uomo libero non parente nè affine con lei nei gradi che ostano al riconoscimento”. Emilio, ovviamente. Il quale poco dopo la sposa, per poi ripartire con lei ed il bambino verso l’America – stavolta quella del Nord. A New York le possibilità d’impiego per un quarantenne colto, intelligente ed esperto come lui non mancano. Presto trova un buon posto in banca, che gli frutta il rispettabile stipendio di 100 dollari al mese (circa 1500 euro odierni), mentre la famiglia cresce in parallelo al consolidarsi della sua posizione sociale: tra il 1907 ed il 1909 l’infaticabile Nella gli regala altri due maschietti, e sul finire del 1911 la vediamo -di nuovo incinta- augurarsi che stavolta si tratti di una femmina, cui trasmettere tutta l’energia positiva e la gioia di vivere del suo essere donna.
L’anno 1912 si apre così sotto i migliori auspici, nella dignitosa abitazione newyorkese dei due immigrati toscani. Tuttavia l’agenda prestabilita dalla sorte prevede per Emilio nuovi, improrogabili impegni. La recrudescenza di una malattia che lo affligge da tempo lo persuade a imbarcarsi di nuovo per l’Europa, per Firenze, dove sa di chirurghi specialisti in interventi del genere. Ma un altro tipo di operazione lo richiama imperiosamente nel capoluogo: la necessità di regolarizzare una volta per sempre la condizione anagrafica del primogenito, mai ben definita, dandogli finalmente il proprio cognome. Per la scelta dello studio notarile presso cui redigere l’atto ufficiale si affida alle conoscenze dell’amico Mario Foresi, noto letterato elbano, cui ha appena regalato una copia con dedica della sua traduzione della conferenza di Marconi. Foresi lo indirizza dal notaio Carlo Querci, di cui frequenta abitualmente la famiglia: così, nella giornata del 29 marzo, il documento è preparato, firmato, autenticato.
L’aria è frizzante, in quella primavera fiorentina del 1912. E allegro è l’umore di Emilio quando, in paglietta e redingote, si reca all’ufficio postale per spedire a casa, al di là dell’oceano, un telegramma che suona più o meno così : “Sbrigata pratica parto per Parigi. Fissato imbarco Cherbourg 10 aprile: TITANIC!”
Il breve soggiorno nella capitale francese gli permette qualche svago: forse la visita al Louvre, forse la salita sulla Tour Eiffel, moderno simbolo della tecnologia, del progresso, di nuovi orizzonti ancora da scoprire...
Mancano solo pochi giorni all’incontro col Titanic, che al largo della rada di Cherbourg disegna maestoso nel cielo la sagoma dei suoi quattro fumaioli. Emilio ha solcato il mare più volte, su navi certamente importanti, ma un transatlantico di quella stazza è un’emozione anche per lui. Tanto più che a bordo –come ha letto nelle cronache entusiastiche dei quotidiani locali- si trova addirittura un ufficio postale, da cui i passeggeri in navigazione potranno spedire messaggi ad amici e parenti grazie al nuovo telegrafo senza fili, frutto del genio di Marconi: per Emilio un’occasione imperdibile per appagare, una volta di più, le proprie curiosità scientifiche.
In viaggio, colazioni a base di bacon e sciroppo d’acero e cene innaffiate da Moet & Chandon 1898 si susseguono in un clima piacevole e sereno, mentre il sottofondo musicale dell’orchestra rende l’atmosfera più calda, malgrado la presenza di imponenti blocchi di ghiaccio, in silenzioso rapido inesorabile avvicinamento...
Le ultime ore di Emilio Mangiavacchi sul Titanic appartengono non solo alla Storia con la S maiuscola, ma anche e soprattutto alla storia personale di lui, uomo coraggioso (“Sono stato pompiere volontario: posso essere d’aiuto?”), fiducioso nel potere della tecnica (“Gentile signora, non si dia pena! So per certo che dal modernissimo telegrafo di bordo si è già chiesto soccorso: tutto andrà per il meglio!”), ottimista fino all’ultimo, positivo fino all’estremo. Fino in fondo.
L’ansia, nella casa di New York, cresce col passare delle ore, nella giornata del 15 aprile 1912. Nessuna traccia della nave attesa in porto. E le prime, frammentarie, terribili notizie di un disastro destinato ad assumere proporzioni inimmaginabili.
Quasi tre mesi più tardi, Nella dà alla luce l’ultima creatura, il cui nome –in ogni caso- è scontato. Nasce così Maria Emilia, che non conoscerà suo padre di persona, ma riuscirà a figurarselo grazie ai racconti della madre e dei fratelli: insieme ai quali, nell’autunno di quello stesso anno, torna infine alla terra d’origine della famiglia, che infatti nel 1913 risulta avere residenza –come ossequiosamente recita la risposta del sindaco Corsini al Ministero della Marina- in Firenze, via Donizzetti n. 2.
La vedova Mangiavacchi, la forte e indomita Nella da Sovicille, si ricongiunge al compagno della propria vita esattamente 48 anni dopo la sua scomparsa, il 14 aprile 1960, soffocata da un edema polmonare come lui dalle acque dell’Atlantico.
Il racconto che qui si conclude, basato su documenti storicamente attendibili e solo in parte leggermente romanzato dalla partecipazione emotiva di chi scrive, è dedicato con affettuosa stima ai due protagonisti della vicenda, entrambi emblematici per carattere e personalità: Emilio -impetuoso, generoso, eclettico, brillante- e Nella –indipendente, appassionata, consapevole, ferrea.
Paradigma perfetto, ieri come oggi, di una coppia degna di questo nome.
(Pubblicato in versione ridotta su La Nazione del 15/4/2012, p. 14 Cronaca di Firenze: Emilio Mangiavacchi, un fiorentino sul Titanic, di Roberta Barbis)