lunedì 21 dicembre 2009

Neve e neve

mazapegul



Una decina di giorni fa sono andato in galleria a Milano con mia sorella a girar librerie: preso dall'amor fraterno (non riuscivamo a fare due chiacchere tra noi due soli da anni) e da un attacco di bulimia, ne sono uscito con un gran pacco di libri. Primo tra tutti, per volume, Le Storie di Kolyma, di Varlam Tichonovič Šalamov. Ne avevo già ascoltate alcune alla radio un paio d'anni fa e, come sempre per le cose ascolate in radio, mi sono famigliari come storie raccontate da un vecchio amico.
Sono storie terribili: Šalamov vi descrive, con nessun abbellimento e pochi orpelli narrativi, momenti e personaggi dai suoi vent'anni di Siberia, a cui lo aveva destinato un antistalinismo morale, prima che politico. Sui racconti magari ci tornerò; e su come siano diversi e simili da Primo Levi, e di come questa similitudine e differenza nascano dalla similitudine (tanta) tra i due scrittori e la differenza (poca) tra le due situazioni.
Io sono un ex comunista e con queste cose bisogna farci i conti sempre. Anni fa mi lessi il Libro Nero del Comunismo, ma era così ideologicamente impostato, che ad ogni pagina mi veniva da pensare "questo dato è disomogeneo con gli altri", "se si accetta questo nesso causale, allora dovremmo pure accettare questi altri" e così via. Alla fine, vedevo soprattutto il discorso ideologico e non l'orrore in sé. Nei Racconti di Šalamov non c'è ideologia, come non c'è in Primo Levi. Il lettore è nudo di fronte ai fatti di nuda gente.

Pochi giorni dopo sono arrivati neve e gelo. Portando la figlia a scuola, guardando i ghiaccioli pendere dal tetto mentre sto in casa al caldo, pestando i piedi sul ghiaccio, non posso che pensare che un mio sputo, comunque sia, raggiunge il suolo senza ghiacciare (la temperatura è a un insolito -17 padano, non a un comune -50 siberiano), e non sono ai lavori forzati.
Sabato sono uscito con l'influenza a fare la spesa: eravamo tutti febbricitanti, ma bisogna pur mangiare. Credevo di non riuscire a fare interi i duecento metri del ritorno: mollati passeggino e spesa in corridoio, mi sono accasciato sul letto e ne sono riemerso ventiquattro ore dopo.
Mentre tornavo con le poche borse della spesa mi chiedevo come fa la gente che si prende l'influenza nel mezzo della campagna svedese, per non parlare di quelli che se la prendevano in Siberia, al lavoro coatto.

Un ricordo allegro del mio anno militare è di quando si fece la guardia a -15, a Rieti. Il servizio era stato accorciato: un'ora in garitta e due di riposo, invece di due e quattro, per le ventiquattro ore di regolamento. Le uniformi dell'esercito erano ridicolmente inadeguate per il concorrere di freddo e (doverosa) semi-immobilità, così l'ufficiale di picchetto chiudeva un occhio sul vestiario non regolamentare. Tra il maglione militare e la giacca a vento della divisa avevo un maglione e una giacca a vento in più. Il collo, che l'esercito non aveva preso in considerazione come disperditore di calore animale, era protetto da una esuberante sciarpa rossa lunga due metri, regalo confezionato da mia madre.
Mano a mano che smontavano dalle garitte, le guardie andavano a marcar visita. Alla fine delle ventiquattrore, del picchetto iniziale eravamo rimasti nemmeno un quarto.

Allegro, dico, perché la temperatura era poi sopportabile; non eravamo prigionieri e avevamo anche un nostro piccolo orgoglio di servizio armato da difendere. Eravamo ben nutriti, e anche la qualità del cibo non era male. Chi marcava visita si faceva due giorni a letto a poltrire. Nessuno ci avrebbe fucilato per non aver concluso la consegna, come invece era normale avvenisse nella Kolyma.


4 commenti:

Solimano ha detto...

Màz, io non sono mai stato comunista. Di famiglia, nasco socialista (e la famiglia contava, fra Emilia e Romagna). Addirittura, vicina alla secessione saragattiana, ai tempi del Fronte Popolare.
Quasi ancora con i pantaloni corti, sfilai contro l'invasione dell'Ungheria nel 1956. Ho lavorato per trent'anni in una ditta americana, contento di lavorarci, eppure ho finito per votare Berlinguer invece di Craxi (e non ero certo il solo).

"Il libro nero del comunismo". Volutamente non l'ho letto, perché mi era chiara la strumentalità (fra chi l'ha scritto, ci sono diversi ex-comunisti e si sa che gli spretati diventano i più anticlericali). Quando uscì, pensai che qualcuno avrebbe fatto bene a scrivere "Il libro nero del capitalismo", sarebbe uscito un libro corposo e senza strumentalità, scegliendo gli scrittori giusti, quelli cioè che il capitalismo lo conoscono per davvero e non per slogan.

Sulla durezza di vita di cui oggi non ci rendiamo conto, ho sentito e vissuto alcune cose.
Mio bisnonno Primo (da cui ho preso il nome) che morì con la bisnonna Fiora (da cui ha preso il nome mia sorella) durante l'influenza spagnola. Tutti erano ammalati, in quella cascina. Quando qualcuno cominciò a rimettersi si chiese: "E i nonni?" Li trovarono ambedue stecchiti nel letto, se n'erano scordati.
Il rifugio antiaereo (che poi era una cantina) in via Indipendenza a Bologna, con tutti che si guardavano negli occhi al crescere del rumore degli aerei.
Mio padre artigliere, che dormì per due ore in Etiopia vicino ad un cannone che sparava (e lo so, che rumore fa il cannone quando spara, ho fatto l'artigliere).
I miei genitori fotografati a Bologna mentre camminano nel 1945. Magrissimi, e non per dieta.

Cose non buone, ma che permettevano almeno di porsi dei problemi veri. Oggi vedo, anche in rete, che sovrabbondano quelli che si pongono problemi falsi. D'acordo la scala dei bisogni di Maslow, ma chi i problemi ed i dolori veri li ha conosciuti, quando vede la tristezza fatta sistema, dovrebbe, come minimo, non dargli corda. La tristezza è solo una scusa per non fare, quando fare qualcosa è possibile, alla portata di chi da del tu alla propria vita, che è la cosa più naturale. I falsi problemi di sentono a naso, e, come dice il mio amico Claudio, sono irresolubili, a differenza dei problemi veri che invece, magari solo per il passare del tempo, una soluzione la trovano.

grazie Màz e saluti
Solimano

Silvia ha detto...

Ma io lo dico sempre che siamo dei mezzi fisici:) Conduciamo una vita sedentaria, piena di agi, non tempriamo il fisico e non sopportiamo gli sforzi. Però siamo vivi. Perchè un tempo morivano come mosche, questo bisogna dirlo. Chi riusciva a sopravviere era una macchina da guerra, come babbo che è una roccia vivente.
Noi siamo sì e no, delle falciatrici:)

Ho visto il metodo che usano negli asili giapponesi. In pieno inverno, con la neve in terra, portano fuori i bambini a giocare vestiti con pantaloncini corti e maglietta di cotone. Non hanno detto però in quanti rimangono vivi.

mazapegul ha detto...

Silvia: non sono proprio giapponese, ma ho sempre portato le figlie a scuola e al nido a piedi, qualunque tempo ci fosse (gli ombrelli: che grandi invenzioni!). Non tanto per temprarle, ma perché credo che ogni tempo sia a suo modo interessante, abbia i suoi dettagli, contribuisca alla conoscenza dei duecento metri che separano casa e scuole (anche Monet, del resto, dipinse un pagliaio in diverse stagioni). Mi spiacerebbe poi che la figlia grande se ne stesse chiusa in casa non per libera scelta, ma per paura di una temperatura o di un'umidità particolare.
Ho visto come i colleghi scandinavi tirano su i figli d'inverno: i giapponesi non arrivano a tanto (e gli svedesuzzi pare sopravvivano in gran numero).

Solimano, a suo tempo scrissi come la linea maschile della mia famiglia segua un percorso riformista da un centinaio d'anni, col materiale che c'è. A me parve che il materiale del tempo fosse il PCI (e credo ancora che lo fosse davvero), ma che il materiale sia questo o quello fa poi una bella differenza. Per esempio, alle grandi feste dell'Unità c'erano, me quattordicenne, gli stand dei paesi comunisti; si discettava di "diritti borghesi" (sacri in Italia, ma per l'estero c'era una certa qual flessibilità in proposito). E l'essere in genere sul lato scalfariano della discussione non basta a liberarsi d'un colpo degli altri aspetti della propria formazione.

Sulle durezze della vita: non le ho mai veramente conosciute, per fortuna. Non ho mai avuto davvero neanche l'occasione di schivarle.
Sulla vita dura ci sarebbe da scrivere un sacco, in forma d'esperienza indiretta (da parte mia). Credo che le donne abbiano una loro parte di vita dura, che diminuisce più lentamente che per gli uomini (parlando genericamente).

Maz

Silvia ha detto...

Però Maz mica le fai andare in maglietta di cotone con mezzo metro di neve:) Gli svedesi li ho visti all'opera e sanno gestire il freddo in modo egregio, ci sono abituati. E poi quello che ammazza è l'umidità.
Concordo sulla passeggiata quotidiana con tutte le stagioni. Ogni giorno porta dettagli diversi ed è importante sviluppare lo spirito di osservazione. Auguroni:)